Il disagio dei ragazzi, quello che ha portato alcuni a rifiutare l’orale, è realistico, ma non dipende dalla maturità. Forse c'è un colpevole nascosto
L’acceso confronto fra “innocentisti” e “colpevolisti” riguardo al rifiuto di alcuni studenti di sostenere l’orale di maturità mi ha colpito per la verità che entrambe le posizioni esprimono. Da un lato la percezione di un disagio diffuso fra i ragazzi, che però non è una novità (si veda La generazione ansiosa di Jonathan Haidt), e non dipende certo da un esame il cui esito è in pratica scontatamente positivo: la cura non può essere il solo richiamo al dovere di rispettare l’istituzione a prescindere dalla sua autorevolezza.
Dall’altro la percezione che un rito di passaggio come è il primo e unico esame vero della propria carriera scolastica, carriera che dovrebbe portare a conoscenze e competenze accertabili, è stato progressivamente svuotato di significato e picconato nel suoi fondamenti: la cura non può essere edulcorare l’esame più di quanto è stato fatto.
Il disagio dei ragazzi è realistico, ma non dipende dall’esame. Temo che chi dice “Nei cinque anni delle superiori ho trovato raramente professori che cercassero di capire veramente noi studenti” affermi una triste verità, e che la burocratizzazione, la pressione esterna, il sovraccarico di adempimenti che hanno appesantito la scuola negli ultimi decenni abbiano avuto questo terribile esito: la scuola non è fatta per gli studenti.
Un tempo era fatta per gli insegnanti, dava loro garanzie e posizioni, ora è fatta per il ministero, con le sue prescrizioni, i suoi adempimenti, e vittime attuali ne sono anche i professori stessi. In questo senso la protesta di alcuni ragazzi è un gesto “pubblico” che ha una sua serietà e segnala un problema.
D’altra parte, non si può utilizzare il frangente per altri motivi, accusando il ministro di volere “una scuola che fa sempre più della competizione un modello”: è forse un’argomentazione velatamente “anticapitalista”, contro il ministero del “merito”? Ritorniamo alla valutazione che guarda solo il processo, e non il risultato e il raggiungimento degli obiettivi? (anche no, adesso poi).
Il voto non coincide con la competizione, ma fa parte di un processo di crescita che ha i suoi step, ed è necessario come indicazione di rotta, sempre se è incentrato su riscontri descrittivi che aiutino lo studente a migliorarsi: l’alternativa non è fra un numero e un giudizio (possibilmente univoco), ma fra un giudizio secco e una descrizione che aiuti il percorso di miglioramento.
Per questo ci vuole una valutazione “liberata”, come sostiene da anni l’amico Rosario Mazzeo, e su questo ci sarebbe tanto lavoro da fare con gli insegnanti, come è emerso da un convegno della Fondazione Lincei per la scuola di cui già ho scritto su questo giornale. Non è una questione docimologica, ma proprio di come pensare il percorso scolastico.
Il punto che mi colpisce è che i voti ci sono sempre stati, e nessuno è morto (ai miei tempi) per avere preso un 4. La vicenda dell’esame orale rifiutato pare mettere sotto accusa proprio i voti che “riducono lo studente a un numero”. Così ha affermato lo studente padovano Gianmaria Favaretto per giustificare davanti alla commissione la sua scelta di non rispondere: “I voti da alcuni alunni vengono vissuti malissimo. In classe c’è molta competizione [o ansia da prestazione?]. Ho cominciato a rifletterci, vedendo le reazioni di alcuni compagni: come vivevano la cosa, senza capire che cosa significasse davvero un voto. Erano estremamente attaccati al risultato, diventando addirittura cattivi. Forse è il carattere, i professori, le pressioni della famiglia. Non so”.
A me viene un dubbio: un tempo si prendeva un voto e si aveva il tempo di parlare con il professore, farsi spiegare cosa non andava, fare altre verifiche; inoltre c’era la responsabilità personale di dirlo a casa, magari non subito, si aveva il tempo tecnico di riprovarci e insomma il voto era un momento di passaggio in un precorso. I genitori firmavano la pagella a fine trimestre, e allora c’era la vera resa dei conti.
Oggi non è più così. Non fai a tempo a tornare al posto che il voto è su una piattaforma, oltretutto a disposizione del genitore, in primo piano come sotto una lente di ingrandimento mentre questi si trova in ufficio o a fare la spesa. Per forza che lo studente si sente inchiodato. Oltretutto il genitore occhiuto ha un’idea del bene di suo figlio uguale a: o prendi 8 oppure denuncio il professore (variante: se non prendi 10 ricorro al TAR). Per forza che uno diventa cattivo e competitivo.
Non so se i vantaggi apportati dal registro elettronico siano reali e dopo anni di utilizzo siano stati sottoposti a valutazione (ironia!). Non sono certo io la prima che si pone questo problema: Paolo Crepet e Daniele Novara ne scrivevano mesi prima dell’esame di Stato.
Ma il dubbio che mi viene è che le due cose siano fra loro collegate. Una pressione sui ragazzi come quella esercitata dal registro elettronico, che non solo inchioda ma fa da delatore istantaneo, non può che fare uscire di testa i ragazzi. Ecco che il voto diventa il responsabile di tutti i mali e l’esame, con la sua somma matematica di crediti + scritti + orale diventa il simbolo di questo sistema. In molti abbiamo lamentato a suo tempo la scarsa elasticità di questo sistema di punteggi.
E poi: se gli stessi adolescenti cominciano a chiedere ambienti sicuri cioè privi di connessioni, per non essere sempre sotto il giudizio dei coetanei, come mai è la scuola stessa a costringerli a passare da una piattaforma anonima e impersonale?
Se si vuole tornare a una scuola al servizio dei ragazzi, non è un particolare irrilevante quello del modo in cui le valutazioni vengono assegnate, motivate, comunicate. La scuola, le relazioni, si reggono a volte più su questi dettagli che sulle riforme complessive.
Segnalo solo l’effetto forse non previsto della riforma Gelmini per cui gli orari di cattedra dei professori (un dettaglio?) devono formare le 18 ore a costo di spezzoni di vario genere; per la cattedra di lettere fu uno sconquasso pedagogico, e mai fu presa in considerazione l’idea di poter avere un orario di cattedra variabile concordato scuola-lavoratore.
I ragazzi hanno ragione a sentirsi ingabbiati dal registro elettronico, e forse accetterebbero una valutazione descrittiva, come dovrebbe essere, da parte di qualcuno che li guida, che segnala i passi percorsi e indica i passi da percorrere per arrivare al livello richiesto. I ragazzi chiedono una scuola in cui l’insegnamento sia personalizzato, cioè al servizio della persona nella sua concretezza, come la prossima Convention dell’associazione Diesse (Rimini, 25-26 ottobre 2025) mette a tema: “La sfida della personalizzazione. Una questione di metodo”.
La sfida è trovare le strade per cui un ragazzo si senta accompagnato e valorizzato anche nel passaggio stretto della valutazione. I ragazzi vogliono crescere, non essere catalogati.
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