Oggi al Meeting di Rimini si terrà un incontro con l'economista Luigi Zingales riguardante il capitalismo americano
Luigi Zingales è un economista tra i più noti nel panorama internazionale e al Meeting di Rimini è protagonista oggi di un incontro dal titolo eloquente: “Il capitalismo malato”.
Zingales è da molto tempo critico della direzione (per alcuni una deriva) intrapresa dal modello capitalistico americano in cui le grandi corporations perseguono obiettivi che sono spesso in contraddizione con quelli della società. La tendenza alla concentrazione e l’emergere di imprese che hanno una dimensione economica paragonabile a quella di uno Stato di medie dimensioni (la capitalizzazione di mercato di Apple è circa una volta e mezza il Pil italiano) ha una serie di implicazioni di assoluta rilevanza.
La prima è il crescente potere di mercato che si accompagna alla presenza di queste imprese. Questo potere di mercato si manifesta spesso e volentieri a spese dei consumatori che sono costretti a subire le scelte e i prezzi imposti da questi semi-monopolisti. La seconda conseguenza è che le grandi corporations affiancano al potere di mercato anche un rilevante potere politico. Tutti hanno in mente l’immagine della presenza dei principali leader delle Big Tech alla giornata di insediamento del Presidente Trump lo scorso gennaio.
Il maggior potere politico ha un’importante implicazione: le grandi corporations sono difficilmente vincolabili dall’attività regolatoria degli Stati. Anzi, spesso avviene proprio il contrario: sono numerosi i casi (e le ricerche di Zingales lo documentano con precisione) in cui le attività di regolazione negli Usa, soprattutto negli ultimi 20 anni, sono disegnate proprio per favorire le grandi imprese.
La terza e rilevante conseguenza è la forte concentrazione anche nel mercato di investimento. Negli Usa i primi tre fondi di investimento (Blackrock, Vanguard e State Street) detengono circa il 25% delle azioni dello SP500. Tutto ciò conferisce a queste società un grande potere decisionale dato che alle quote azionarie è associato un diritto di voto.
Zingales sottolinea con forza come questa situazione risulti lesiva degli stessi diritti democratici degli azionisti. Ad esempio, molti di loro sarebbero disposti a rinunciare a una piccola frazione dei profitti (e dei dividendi) in cambio di una maggior attenzione alle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche che lavorano per la Nike o negli stabilimenti in Estremo Oriente della Intel. Tuttavia, queste preoccupazioni, senza il supporto dei grandi fondi di investimento, hanno poche probabilità di essere portate all’attenzione dell’assemblea degli azionisti.
Zingales suggerisce la creazione di assemblee di investitori in cui un meccanismo di rappresentanza favorisca l’emergere delle istanze che stanno maggiormente a cuore della maggior parte degli azionisti per allineare le scelte delle grandi corporations con quelle della società.
E in Europa? Siamo anche noi prigionieri delle grandi corporations? Guardando ai dati notiamo come nell’Ue il livello di concentrazione rimanga sensibilmente inferiore rispetto a quello degli Stati Uniti, anche se in chiara crescita. Come ben sottolineato dal Rapporto Draghi, in molti settori il grado di concentrazione del mercato europeo risulta addirittura troppo basso, generando effetti negativi quali scarsi utilizzo di economie di scala, eccessiva frammentazione e inefficienze produttive. In altri termini, all’Europa mancano proprio quelle grandi corporations in grado di competere alla pari con i giganti americani o cinesi: servirebbero dunque più “campioni europei” in grado di reggere la sfida della concorrenza globale.
Un primo dato dunque è che in Europa mancano i grandi giganti economici che caratterizzano l’economia Usa. Ma se la tendenza è quella verso una maggiore concentrazione, se dunque mettessimo in pratica le indicazioni del Rapporto Draghi, saremmo dunque condannati allo stesso destino del mercato americano? In realtà, tra Stati Uniti ed Europa esistono differenze istituzionali che possono far sperare diversamente.
La Commissione europea, pur essendo un organo politico, ha prevalentemente un ruolo tecnico e, soprattutto, non è eletta direttamente dai cittadini. Nella maggior parte dei casi condivide le decisioni con il Parlamento europeo, in cui si formano spesso maggioranze variabili a seconda dei temi trattati. Questa architettura istituzionale, in cui manca una chiara maggioranza politica, e che presenta più frammentazione e meno polarizzazione rispetto a quella americana, rende le Istituzioni meno esposte all’influenza diretta delle grandi corporations?
L’evidenza degli ultimi anni sembra suggerire una risposta positiva. Le sanzioni miliardarie inflitte dalla Commissione europea a colossi come Microsoft e Google testimoniano una capacità di azione autonoma nei confronti delle Big Tech. Un altro caso emblematico è rappresentato dai rigidi limiti alle emissioni delle automobili. Si può discutere sul fatto che questi limiti siano forse eccessivamente rigidi, ma è certamente indiscutibile che la normativa non sia stata creata a favore delle grandi case automobilistiche.
In ambito di governance la diffusa partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle imprese, tipiche del modello tedesco, favorisce un maggior allineamento tra obiettivi delle imprese e quelli della società in cui operano.
Forse sotto questi profili il modello di capitalismo europeo ha ancora qualcosa da insegnare a quello americano.
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