Nei Musei Vaticani la mostra "Paolo VI e Jacques Maritain: il rinnovamento dell’arte sacra tra Francia e Italia (1945-1973)". Fino al 20 settembre
Vituperato, invocato, rimpianto, idolatrato, l’Occidente riappare di nuovo al crepuscolo, al compimento del suo omen. Al tempo di Lepanto era minacciato dall’esterno ma, come sempre nella storia, sono le crepe interne a produrre il barcollamento più pericoloso.
E così oggi, con l’appalesarsi della profonda faglia sismica apertasi tra Europa e America e con la labirintite afasica che affligge il Vecchio Continente, siamo spinti a frugare nel variegato bagaglio della civiltà occidentale alla ricerca delle cose essenziali che la definiscono ed eventualmente da mettere in salvo: persona, libertà, razionalità, senso realista della vita, trascendenza e rapporto con l’Altro, con gli altri e con la natura, diritti dell’uomo, democrazia, legge naturale, creatività dell’individuo, scienza, arte… tutti ingredienti, pescati alla rinfusa, che hanno trovato la loro fucina e la loro casa (ben più rari e rarefatti altrove) nel plurisecolare alveo della civiltà dell’occaso, più volte data per finita e altrettante volte risorta. Ma certo, oggi non siamo combinati per niente bene.
La premessa – lo ammetto, un po’ sopra le righe – mi serve per calibrare lo sguardo su una piccola mostra ai Musei Vaticani che fiancheggia, impari impresa, Michelangelo e Raffaello, le sacre divinità dell’arte di tutti i tempi. Una esposizione curata con maestria, gusto e originalità da Micol Forti, da un quarto di secolo curatrice della Collezione moderna e contemporanea dei Musei del Papa.
L’occasione è un anniversario apparentemente irrilevante come l’arrivo in qualità di ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, giusto 80 anni fa, di un personaggio cruciale del Novecento: il filosofo Jacques Maritain, nominato per quell’incarico dal generale Charles de Gaulle, al dissolversi del lungo incubo europeo nazi-fascista.
Una figura di intellettuale poliedrico che contribuì alla rinascita del tomismo (“Vae mihi, si non thomistizavero” aveva ammonito se stesso questo ex ateo di famiglia protestante e anticlericale poi convertito al cattolicesimo grazie a Léon Bloy), strenuo defensor del giusnaturalismo personalistico in epoca di aberrante positivismo giuridico (caratteristica d’ogni dittatura), promotore del diritto internazionale e del multilateralismo (si veda la sua intensa attività in favore della proclamazione dei diritti dell’uomo da parte dell’Onu), anticipatore del Concilio Vaticano II e infine anche al centro del rinnovamento dell’arte sacra nel Novecento, grazie alle sue riflessioni sull’estetica e alla fitta rete di amicizie con artisti del calibro di Rouault e Cocteau, Congdon e Severini.
E proprio di quest’ultimo aspetto, sotterraneamente intrecciato però con tutti gli altri – giacché la rinascita postbellica del pensiero cristiano, dopo che nelle guerre mondiali s’era dispiegato tutto il mortifero potenziale delle ideologie scientiste, immanentiste, razziste e comuniste, fu ad ampio spettro – si occupa la mostra, che espone opere concepite in quel fervido contesto di preparazione e di ripresa del dialogo Chiesa-artisti con disegni, bozzetti, quadri, documenti, fotografie.
L’opera di apertura è un olio su tela di Ugo Attardi che raffigura il martirio di san Paolo, dove il volto però è quello di Paolo VI, l’altro protagonista, a fianco di Maritain, del progetto espositivo. I due formarono un sodalizio intellettuale e amicale molto stretto ben prima dell’ascesa di Montini al Soglio di Pietro; ai due si deve l’esistenza stessa della Collezione vaticana di Arte moderna e contemporanea, da 50 anni testimonianza-principe della vitalità dei Musei, sia come scrigno di creatività in atto sia come fucina di elaborazione teorica.
Il martirio di san Paolo possiede una doppia valenza, anche profetica: Montini, da Papa, ebbe molto a soffrire per la retta fede nel tumultuoso postconcilio, si può ben definirlo un martire, ma nel 1977, data dell’opera, non era ancora santo, sicché oggi i san Paolo martiri sono in un certo senso entrambi; Maritain fu al suo fianco, come emerge dalle pagine de Il contadino della Garonna, ma anche nella coraggiosa affermazione del Credo del popolo di Dio, suggerita a Paolo VI dal cardinal Journet e redatta da Maritain (di quest’ultimo in mostra un bel ritratto di Severini).
Due intense crocifissioni di Rouault e di Chagall, una inedita Resurrezione di Cocteau, quattro splendide litografie di Manessier sul tema pasquale, due olii su masonite di Congdon, insomma una quarantina di opere che restituiscono con eloquenza lo sconosciuto ruolo propulsore di Maritain nel campo dell’arte sacra.
“Quando ho incontrato William Congdon a Parigi ciò che in lui mi ha colpito è stata la sua douceur di una strana profondità, un candore assolutamente disarmato, una vulnerabilità di fronte a tutti gli strali spirituali, e non solo quelli provenienti dalle angustie di questo mondo e dalla bellezza che ferisce i nostri sensi, ma anche gli strali delle sfere ultraterrene, con lui, come con Rouault ho sentito quella sorprendente rassomiglianza tra l’uomo e l’opera che è la caratteristica degli artisti di genuina grandezza”.
Così – mentre in contemporanea Edizioni di Comunità rimanda in libreria, con lodevole tempismo, I diritti dell’uomo e la legge naturale (1942) comprensivo anche di Cristianesimo e democrazia (1943) –, dalla bisaccia vaticana si estraggono piccole grandi gemme d’un tesoro che oggi, in epoca di ferro, oscura e violenta, rischia lo sperpero in uno sciagurato ed ebete oblio.
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