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Home » Cultura » Storia » LETTURE/ Tra medioevo e rinascimento, sempre bisognosi di salvezza: la nuova dignità dell’uomo ferito

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LETTURE/ Tra medioevo e rinascimento, sempre bisognosi di salvezza: la nuova dignità dell’uomo ferito

Danilo Zardin
Pubblicato 21 Settembre 2025
Michelangelo, "Cristo risorto" o "Cristo della Minerva" (1519-1521, particolare)

Michelangelo, "Cristo risorto" o "Cristo della Minerva" (1519-1521, particolare)

L’eredità di Pico della Mirandola si trova accolta nel sermone papale per il mercoledì delle Ceneri del 1513 di Dionisio Vázquez (4)

Esattamente come la già citata predica per le celebrazioni della Settimana Santa del 1531 nella cerchia della curia pontificia, troviamo che dalla considerazione realistica del “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris” avevano già in precedenza preso le mosse i sermoni papali per il giorno delle Ceneri, in particolare quello del 1513.


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Qui, però, con connotazioni di speciale interesse per noi, perché in una simile circostanza l’incarico di farvi fronte era ricaduto su un altro agostiniano di primissimo piano, perfettamente accostabile alla figura di quell’Egidio da Viterbo in cui ci siamo imbattuti parlando delle fonti scritte.

Ora si trattava dello spagnolo Dionisio Vázquez, docente di chiara fama negli ambienti universitari iberici e in rapporto con l’augusto imperatore e re di Spagna Carlo V d’Asburgo. Vázquez non aveva avuto il timore di cimentarsi nell’applicazione dei nuovi metodi umanistici nei suoi studi di patristica e di teologia scolastica, e più tardi si espose anche a seri rischi schierandosi a difesa dell’anticonformista e molto discusso Erasmo da Rotterdam.


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John W. O’Malley, lo storico gesuita di cui stiamo riassumendo alcune importanti revisioni interpretative dell’immagine del cattolicesimo europeo del primo Cinquecento, vi vede la convincente conferma che, a quella data, “tra i membri degli ordini mendicanti, lo stile medievale e quello rinascimentale nel campo della cultura, della teologia e dell’argomentazione potevano coesistere nella medesima persona e anzi stringere un certo armonioso legame”.

Di nuovo, l’accento torna a essere posto sugli intrecci e i debiti reciproci, non più sulla contraddizione insanabile e l’aspro conflitto battagliero tra fede ortodossa e amore per la ricerca del vero come unica cifra del rapporto tra cristianità e culto della ragione umana.


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La cosa per noi più significativa è che il sermone papale per il mercoledì delle Ceneri del 1513, pur costruito a partire dal topos in tutto consuetudinario della vanitas mundi, include una ripresa pressoché letterale di alcuni passaggi dell’orazione di Pico della Mirandola sull’opposto registro apparentemente solo “ottimistico” della dignità dell’uomo.

La fonte del prelievo non è dichiarata. Ma la stretta vicinanza del contenuto porta O’Malley a sostenere che in questo genere di eleganti esibizioni della retorica ecclesiastica di più alto profilo non solo ci si poteva raccordare senza remore con le scritture laiche rinascimentali sul tema della soggettività umana, ma si rendeva anche più coerentemente dispiegato l’aggancio della dignitas hominis con i suoi ultimi fondamenti teologici.

In un testo come il sermone del 1513 diventa evidente che l’eccellenza dell’uomo non si costruiva unicamente sul primato del suo collocarsi al vertice della creazione, come mediatore dei rapporti del mondo inferiore con quello celeste, in un nesso di più diretta familiarità con l’irraggiungibile, somma perfezione dell’Archetipo divino: l’uomo creato “a Sua immagine e somiglianza”. Questo legame assolutamente privilegiato individuava solo lo stato di partenza della vocazione dell’uomo alla conquista della sua piena dignità. Una vocazione contraddetta e sfigurata, nella storia concreta del mondo, dal rifiuto, da parte dell’uomo, di permanere in uno stato di riconoscente e devota obbedienza nei confronti di Dio: dunque dall’esercizio distorto della sua libertà originaria, che ha introdotto per inevitabile contraccolpo la decadenza di una vita diminuita, inquinata dalla precarietà del male e dall’inconsistenza di una volontà umana corrosa dal suo interno.

Peter Paul Ruben, Ritratto di Pico della Mirandola, particolare

Ma l’uomo non era stato abbandonato al suo destino di scivolamento rovinoso verso il basso. Dio gli è venuto incontro: attraverso la redenzione del Figlio, gli ha riaperto le porte dell’accesso alla felicità che compie il supremo desiderio positivo della carne mortale. Dio stesso ha inaugurato la possibilità della rigenerazione per l’uomo ferito, invertendo il senso della storia. È l’incarnazione di Cristo che si rivela il fatto centrale intorno a cui ruota tutta la costruzione del messaggio antropologico cristiano. Siccome il Verbo si è fatto carne, per l’amore rivolto da Dio all’uomo sofferente la carne mortale dell’uomo è stata riabilitata, rivestita di una nuova dignità supernaturale, e la sua aspirazione ultima si proietta verso una eternità che include in sé, cattolicamente, la risurrezione finale della carne.

Attraverso lo scandalo paradossale del corpo piagato di Cristo, dalla ferita del suo costato offerto sulla croce alla lancia del soldato romano, si rovescia sul mondo – così insegnava la dottrina della teologia più consolidata – l’energia risanatrice dello Spirito divino che “rinnova la faccia della terra”, spalancandole il dono di una alleanza ristabilita su basi interamente rifondate.

Il nuovo Adamo celeste diventa il prototipo dell’uomo restituito alla sua vocazione più autentica, riportato all’origine da cui aveva preso vita la sua esistenza, e il corpo segnato dal supplizio del Golgota si trasfigura nel corpo glorioso della risurrezione che elargisce la misericordia della salvezza per tutti. Un esempio clamorosamente suggestivo di questa idea di restaurazione del destino positivo dell’uomo, ricollegata alla centralità dell’incarnazione e della redenzione di Cristo, è il Cristo risorto di Michelangelo in S. Maria alla Minerva di Roma (1519-21), la chiesa centrale dell’ordine preposto alla tutela dell’ortodossia religiosa nella cattolicità della prima età moderna: l’ordine dei domenicani.

Accostando tra loro i testi e le immagini della cultura rinascimentale, visti nella loro corrispondenza speculare; anzi, si può dire, nella loro oggettiva interdipendenza, acquista piena concretezza la tesi che il riconoscimento della dignità costitutiva della creatura umana non è stato acquisito a prezzo della fuoriuscita da una cristianità schiacciata nelle angustie soffocanti del dispotismo spirituale e orientata solo a coltivare l’ideale della fuga dal mondo. Al contrario, la preziosa conquista intellettuale di cui stiamo parlando, e di cui dovremmo essere custodi quanto mai premurosi, è fiorita sul tronco di un lungo sviluppo plurisecolare.

Uno sviluppo che non ha comportato la pura ripetizione continua dell’identico, bensì una continuità creativa: quella di un corpo in espansione, capace di rinnovarsi al suo interno e di ridisegnare, quando se ne imponeva la necessità, i profili delle sue strutture portanti. Non solo in grado di tollerare, ma anche di contribuire attivamente a una crescita, a un movimento in avanti, di tenace costruzione, fino ad arrivare ad assumere i tratti di una modernità attaccata, nello stesso tempo, al cuore antico di un patrimonio non dilapidabile di certezze fondate su solidi pilastri, tenute insieme con la possibilità di salvaguardarle incorporandovi sempre nuove forme di sensibilità e nuovi stili di discorso.

(4 – fine)

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