Israele, sull'esempio USA, ricorre a pericolose milizie che potrebbero risultare difficili da governare anche per l'IDF. Un altro passo verso l'apocalisse
Guerra di Gaza, giorno 716. Mentre Israele si prepara a governare direttamente l’enclave costiera senza un piano per l’amministrazione locale, non esiste un governo funzionante a qualsiasi livello, distretto, città o villaggio. Un analista attento qual è Meirav Arlosoroff sostiene che in Israele un pensiero dominante vuole che “quando lasci che i palestinesi si amministrino, costruiscono un esercito e vanno a massacrarci”.
È una logica evidentemente difettosa, che implica che il fallimento del 7 Ottobre fosse inevitabile, ignorando tutti gli errori che hanno portato a quella strage terroristica, errori che avrebbero potuto essere evitati (un esercito che non ha adempiuto al suo dovere di base, un governo che ha nutrito Hamas come risorsa partendo dal presupposto che “il silenzio comprerà il silenzio”).
In questi giorni, mentre il Consiglio di sicurezza ONU non riesce a promulgare una risoluzione sul cessate il fuoco, per il veto USA, e la sua ottantesima assemblea generale riunita per discutere delle guerre (Gaza e Ucraina) certifica ancora una volta l’inutilità dell’istituzione e il tramonto del multilateralismo, si registrano ovunque scioperi ProPal, iniziative a sostegno e riconoscimenti di uno Stato palestinese che ormai non si capisce bene quale potrebbe essere, e dove.
Nel frattempo, le drastiche operazioni militari di Tel Aviv continuano, con l’uso spregiudicato di ausilii simil-mercenari. L’esperienza in Siria, Iraq e Afghanistan però dimostra che le milizie locali spesso si rivoltano contro i loro creatori e seguono solo la propria autorità. Adesso l’esercito israeliano e lo Shin Bet sfruttano le tante formazioni (quasi sempre composte da bande di estremisti, irregolari, clan tribali) con sede a Gaza, addestrate come unità di combattimento ausiliarie, armate e autorizzate all’uso della forza letale in cambio di denaro e controllo territoriale.
È un esercito ancillare che però mette a rischio gli stessi soldati dell’IDF ed espone sempre più Israele al confronto non solo con gli abitanti di Gaza, ma anche con la comunità internazionale. Haaretz informa che queste milizie sono coinvolte non solo nella scansione di tunnel e nell’ispezione di edifici sospetti, ma anche in vere operazioni militari.
Secondo i comandanti dell’IDF, il controllo su queste forze locali è limitato. Non sono completamente subordinate alle gerarchie e agli ordini militari e possono persino commettere massacri di abitanti di Gaza, per i quali gli ufficiali israeliani potrebbero essere ritenuti responsabili.

“Questo esperimento non è nuovo e i suoi risultati sono in gran parte prevedibili – sostiene l’analista Zvi Bar’el –. In Libano, l’IDF ha istituito l’esercito del Libano meridionale insieme ad altre forze locali che operano al di fuori dei quadri formali. In Cisgiordania, nei primi anni 80, fu fatto un tentativo fallito di creare le Palestinian Village Leagues, organizzazioni civili destinate a indebolire l’influenza dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina e sviluppare un’alternativa politica per l’autogoverno. Eppure i membri della Lega, armati sotto il pretesto dell’autodifesa, spesso usavano le loro armi per intimidire e costringere i rivali a unirsi ai loro ranghi”.
Israele non detiene il monopolio di questa tattica. Chiunque stabilisca, recluti e schieri milizie presume di poter controllare le loro azioni, dettare regole di impegno, prevenire saccheggi o omicidi o trasformarle in una forza politica per gestire il territorio occupato o far rispettare l’occupazione. Nella maggior parte dei casi, queste ipotesi si scontrano però con la dura realtà dettata dalle milizie stesse.
Gli Stati Uniti hanno forse acquisito l’esperienza più ampia e amara nell’impiego di milizie, anche non “locali, come i mercenari Blackwater. Nel luglio 2017, il presidente Donald Trump ha twittato che stava ponendo fine ai pagamenti pericolosi e dispendiosi ai ribelli siriani che combattono Assad, ma non ha cancellato tutti i programmi di aiuto statunitensi ai ribelli, solo quelli gestiti dalla CIA: le forze gestite dal Pentagono, principalmente milizie curde nel nord della Siria, hanno continuato a ricevere finanziamenti. È di fatto una realpolitik marziale che, nonostante la mancanza di ogni etica, finge di volere basare le proprie azioni sul coinvolgimento delle popolazioni locali.
A Gaza, tra le demolizioni dell’IDF e la continua pioggia di razzi e bombe, metà della popolazione, circa 500mila persone, ha già raccolto le proprie cose e si è incamminata verso un territorio “altro”, che non si sa bene quale sia. Si ammassano nei campi a sud, consapevoli però che l’unica via di fuga, l’Egitto, tiene chiuso il confine, temendo un’invasione di profughi in Sinai, ed anzi ammassando truppe e mezzi proprio per evitare ogni osmosi. L’altra metà dei gazawi galleggia tra resilienza e una disperazione apatica, già sfollata più volte e annichilita da malattie e fame.
Sembra il quadro allucinato di un’apocalisse dove si sono perse le coordinate di qualsiasi vivere, dove si sono mescolate colpe e ragioni in un amalgama infernale che stende sul mondo intero l’ombra lunga della responsabilità.
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