A Palazzo Strozzi (Firenze) ha appena aperto una meravigliosa mostra dedicata al Beato Angelico, senza precedenti per opere esposte. Fino al 25 gennaio
Come la rosa nell’immediata vigilia del suo schiudersi raduna le energie vitali accumulate nel tempo dalla semina al germoglio, lasciando però già intravvedere l’imminente gloria della sua corolla dischiusa, così nella sua pittura convivono prodigiosamente le molte radici di un terreno artistico ormai felicemente fecondato, ma si presente già il trionfo prossimo d’un esuberante rigoglio.
Il miracolo peculiare di Guido di Piero, di fra’ Giovanni da Fiesole, di Beato Angelico (1395-1455) – tre nomi in una medesima persona – sta però in quella portentosa assenza di tensioni, dissonanze, asperità nello sfoglio di due pagine vicine ma assai diverse della storia dell’arte, anzi, al contrario, nella loro armoniosa legatura: quella dell’epoca aurea e quella dell’epoca cromatica, della fissità e del movimento, della impassibilità e dell’espressività.
Il suo connaturato et et cattolico induce fra’ Giovanni a non abbandonare lo spiccato senso della sacertà del reale in favore di un umanesimo più terrenamente drammatico e inquieto ma via via sempre meno nimbato: nova et vetera.
Certo, era frate domenicano osservante, la teologia e la disciplina dell’ordine mendicante lo avranno aiutato, la sua dedizione assoluta, umile, devota e disinteressata all’arte, pure. Ma la straordinaria capacità di guidare con dolcezza, senza strappi, il suo brillante motore creativo su per i tornanti della rapida e ripida ascensione verso i picchi del Rinascimento è il tratto che gli ha calamitato, nei secoli, il favore critico e quello popolare.
Lo sguardo di chi si muove in sua compagnia, anche oggi, si ritrova issato verso l’alto e con esso anche il moto dello spirito. Il mondo raffigurato dall’Angelico è trasfigurato e trasceso.
Come mai nessuno prima, e ben arduamente dopo, la mostra a Palazzo Strozzi, nella sua Firenze, a cura di Carl Brandon Strehlke, racconta con dovizia di opere (140) da tutto il mondo il prodigio del Beato Angelico, quel suo situarsi in ammirevole equilibrio tra il tempo lento delle aureole e il tempo mobile della storia.
La sua straordinaria maestria nel raccontare in figura gli accadimenti celesti in terra (e terrestri in Cielo), la sua semplicità essenziale, senza multistrati ermeneutici, nella narrazione diretta al popolo dei suoi contemporanei (a quel tempo tutti credenti) delle vicende di Cristo e dei santi, la sua ispirata valentìa nell’ostendere Madonne annunciate, incoronate, addolorate, con bambino, risultano amplificate in mostra rispetto alle immagini delle sue opere che incrociamo di solito sui libri o sui video.
Davanti alle dimensioni reali della Pala di san Marco (per l’occasione ricostituita con la predella originale, 17 su 18 pezzi prestati da vari musei del mondo), o a quelle della Pala Strozzi con la sua colorata e affollata Deposizione, ci si sente bassi, piccoli e poveri e si ammutolisce di stupore orante di fronte a questa orante pittura.

Mistico e spirituale dunque, ma Beato Angelico è anche pienamente immerso nella fervida “rivoluzione” del suo tempo, come la chiamò Elsa Morante nelle sue belle pagine dedicate al geniale frate, il quale non disdegnò affatto le acquisizioni realistiche della nuova pittura.
Basta vedere la prospettica scena delle tombe vuote nel Giudizio Universale, ingentilito, nella parte dei salvati, da una paradisiaca scena di danza; o il doloroso svenimento della Vergine nella Crocifissione fondo oro del Met di New York dipinta quand’era ancora laico; o le teste aureolate e sanguinanti staccate dai corpi dei decapitati Cosma e Damiano in una predella della iperdomenicana Pala di san Marco (i santi medici erano diventati patroni medicei); o perfino il dettaglio dei peli bianchi di sant’Onofrio nel Trittico francescano, risorto da miserevoli condizioni conservative a nuova vita grazie al fenomenale restauro dell’Opificio delle pietre dure.
Fra Giovanni, Pictor Angelicus, figlio spirituale del Doctor Angelicus Tommaso d’Aquino, non ha esitato a ritrarre più volte San Francesco, il giullare di Dio, santo del pathos cristiano, epperò le opere del frate fiorentino conservano, a fianco della possanza e vividezza espressive, quella delicatezza aurorale congeniale al Rinascimento in statu nascenti, densa di “già e non ancora”, insieme carica di passato e gravida di futuro.
Come non restare incantati davanti al duetto tra geni – no, non è un featuring come potrebbe lasciar intendere il pagamento, 190 fiorini al pittore, 3 allo scultore! – come il Beato Angelico e Lorenzo Ghiberti nel Tabernacolo dell’Arte dei Linaioli, unica committenza non religiosa del frate che dipinge il contenuto mentre l’altro scolpisce in marmo il contenitore?
Menzione finale (la fa il curatore, la faccio anch’io) per le parole pronunciate 70 anni fa, in occasione del cinquecentenario della nascita del Beato Angelico: “La luce stessa che sparge nello spazio e sui personaggi, non è misurabile tanto dalla quantità che dalla qualità della purezza; luce, per quanto è possibile, celeste… la sua opera diventa un messaggio perenne di cristianesimo vivo e, sotto un certo aspetto, altresì un messaggio altamente umano”; espressioni tratte da un mirabile intervento di Pio XII che vale la pena d’esser letto integralmente (si trova facilmente online).
Verrà, qualche decennio dopo, un altro (santo) pontefice, Giovanni Paolo II, che prima renderà canonicamente valido l’appellativo di Beato e successivamente proclamerà il pio frate pittore “Patrono degli artisti”. Conviene rammentarsi anche di questo mentre ci si aggira, avvolti nella meraviglia, dentro le sale di Palazzo Strozzi e del Museo di San Marco.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
