A Milano una mostra dedicata a Pellizza da Volpedo illustra il percorso della sua ricerca del segreto della luce e della natura. Fino al 25 gennaio 2026
Che cosa cercava Giuseppe Pellizza da Volpedo con la sua pittura? La sua vocazione artistica si manifestò precocemente, ma il suo itinerario di formazione non fu semplice. Egli infatti, ottenuta l’approvazione dei genitori, agiati proprietari terrieri di Volpedo, in provincia di Alessandria, studiò all’Accademia di Brera per poi spostarsi a Roma, trasferirsi in seguito a Firenze, città stimolante in cui fu allievo di Giovanni Fattori, per giungere infine a Bergamo, dove aveva la cattedra Cesare Tallone, ritrattista ammiratissimo dal giovane pittore.
Per acquisire un approccio compositivo e una resa cromatica per lui soddisfacenti si dedicò anche a letture e approfondimenti teorici e tecnici, consolidando e completando così l’apprendimento conseguito nelle Accademie.
Ma la sua ricerca durò per tutta la sua breve vita (morì tragicamente a soli 39 anni) e lo spinse a confrontarsi con i grandi maestri del Divisionismo lombardo, come Segantini e Previati, che l’attiravano per quella sua particolare sensibilità al vero e alla luce, che calava nella pittura en plein air con cui realizzò numerose vedute di Volpedo.
La mostra Pellizza da Volpedo. I capolavori, aperta a Milano alla Galleria dell’Arte Moderna fino al 25 gennaio 2026, curata da Aurora Scotti e Paola Zatti, mette al centro proprio il cammino umano e artistico di Giuseppe Pellizza (1868-1907), attraverso quaranta opere tra dipinti e disegni, provenienti da collezioni pubbliche e private, italiane e internazionali.
Appare così evidente l’instancabile ricerca dell’artista. Pellizza raggiungerà una sua indiscussa visione pittorica originale, anche grazie agli studi di ottica e sull’azione della luce nella scomposizione cromatica, che gli permetteranno di superare l’iniziale fase realista. Lo sguardo penetrante dell’Autoritratto delle Gallerie degli Uffizi, che apre la prima sezione dedicata agli intensi ritratti, ci fa già intravvedere la sua capacità di partecipazione umana, che traspare con chiarezza nel sobrio ma toccante Ricordo di un dolore, nello sguardo sofferente della donna raffigurata.

Sono però i grandi formati dell’avventura divisionista nel biennio 1892-1894 a testimoniare l’evoluzione del pittore verso una luminosità e ricchezza di colori che caratterizzano composizioni costruite con sapienza, sia dal punto di vista prospettico che per la resa dei sentimenti e degli affetti.
Un esempio notevole è lo splendido Sul fienile, con la scena mesta dell’uomo morente accudito dalle donne e confortato dal sacerdote che gli porta l’eucaristia, in un ambiente scuro, mentre sullo sfondo brilla un cielo luminoso e azzurro, simbolo forse della promessa di un’altra vita.
O Il ritorno dei naufraghi al paese, in cui comincia ad emergere con forza, ma in modo delicato, il dolore per le pene e le sconfitte dei poveri, anche grazie all’uso di pennellate picchiettate in punti, virgole e linee irregolari che, secondo l’autore, restituivano “la sensazione della materia costitutiva di ogni elemento”.
Avvicinandosi al XX secolo Pellizza, avido di nuove conoscenze anche nei campi della filosofia e della letteratura, volle dare alle sue tele nuovi contenuti, arricchiti da significati simbolici e sociali. Così, utilizzando la tecnica innovativa della separazione degli elementi costitutivi del colore, otteneva effetti di luminosità intensi e soffusi, che segnarono le atmosfere quasi mistiche di dipinti come Fiore reciso o Amore nella vita.
C’è dunque molto altro, al di là del famosissimo Quarto Stato, suo capolavoro riconosciuto in tutto il mondo. L’opera fu fortemente voluta dalla città di Milano quando, presentata alla Quadriennale di Torino del 1902, rimase invenduta. Per acquistarla fu addirittura promossa una sottoscrizione pubblica nel 1920, nel clima incandescente del Biennio Rosso (i disordini sociali che precedettero l’ascesa del fascismo), dato che il dipinto era diventato un simbolo efficace delle proteste dei lavoratori.
Collocato dapprima al Castello Sforzesco, raggiunse poi l’attuale sede della Galleria d’Arte Moderna, con un passaggio a Palazzo Marino e anche al Museo del Novecento, che l’ha restituito alla GAM solo recentemente. Certo, il riconoscimento del valore del monumentale quadro è stato tardivo per il maestro, che vi aveva lavorato per dieci anni e che morì nel 1907, ben prima della sua consacrazione, da alcuni considerata fin troppo ideologica.
È invece la stupefacente realizzazione de Il sole nascente che mostra la grandezza e la modernità di Pellizza, capace di coniugare realismo e idealismo nello studio coraggioso della luce come fonte naturale, quasi a volerne catturare il segreto. Quanto la rincorreva per i campi di Volpedo, sulle colline che circondavano il paese natale, a cui era sempre ritornato per ritrovare la purezza della natura, davanti a cui sembrava volesse sempre inchinarsi!
Le vedute e i paesaggi, con o senza figure umane, ci incantano per la loro raffinatezza cromatica e simbolica: delizioso Il girotondo, un idillio campestre ambientato nei prati della pieve di Volpedo, che suggerisce una dolce allegrezza.
L’amore per il paesaggio è in definitiva una cifra irrinunciabile per la comprensione di questo pittore solitario e profondissimo – forse non ancora sufficientemente valorizzato –, che sapeva guardare con tenerezza amorevole anche la stanchezza di chi cerca riposo, per esempio in Famiglia di migranti: sullo sfondo ci sono le Alpi, che intravvedeva dal suo paesino e aveva imparato ad amare e a dipingere grazie a un eccezionale amico, il trentino Giovanni Segantini.
Ma forse ciò che più ci affascina nella mostra milanese è proprio lo sguardo di Pellizza, così assetato di conoscenza reale e insieme aperto al mistero del mondo che lo circondava. Seguirlo quadro dopo quadro è anche una lezione di vita per il visitatore non frettoloso, capace di contemplare.
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