Alle regionali nelle Marche la Meloni ha vinto ma senza allargare il consenso e la sinistra è stata scaricata dai suoi elettori. Parla Stefano Fassina
“Il problema vero è l’astensione: quasi 10 punti percentuali in meno di affluenza. Questo significa che fasce sociali in difficoltà hanno smesso di votare per la sinistra e non sono andate da nessun’altra parte”. Stefano Fassina, presidente di “Patria e Costituzione” ed ex viceministro dell’Economia, non usa giri di parole per commentare il risultato delle elezioni regionali nelle Marche, dove Francesco Acquaroli ha battuto con ampio margine il candidato del centrosinistra Matteo Ricci.
In un contesto di astensione crescente e sfiducia diffusa, i numeri mostrano un dato sorprendente: il centrodestra ha perso consensi in termini assoluti rispetto al 2020, ma la sinistra e il Movimento 5 Stelle ne hanno persi quasi tre volte tanto.
“È questa la vera notizia”, osserva Fassina, convinto che il centrosinistra non potrà rialzarsi se non affronta la disconnessione storica tra le forze progressiste e il loro popolo di riferimento.
Onorevole Fassina, partiamo dai numeri. Cosa dicono?
Non mi aspettavo un divario così ampio tra Ricci e Acquaroli, ma guardando i voti assoluti la realtà è chiara: il centrodestra perde circa 25mila voti rispetto al 2020, mentre il centrosinistra con i 5 Stelle ne perde quasi 70mila. Non c’è stata un’espansione del consenso per Meloni e alleati, c’è stata una contrazione generale. Il problema vero è l’astensione: quasi dieci punti percentuali in meno di affluenza. Questo significa che fasce sociali in difficoltà hanno smesso di votare per la sinistra e non sono andate da nessun’altra parte.
Vuole dire che non è il centrodestra a convincere di più, ma il centrosinistra a non convincere affatto?
Esattamente. Non siamo di fronte a un travaso di voti verso la destra, ma a un allontanamento degli elettori storici del centrosinistra. È una disconnessione profonda, iniziata trent’anni fa e aggravata dalla subalternità culturale ed economica della sinistra al paradigma neoliberista. Quelle fasce popolari che un tempo erano il cuore dell’elettorato progressista oggi non trovano più risposte e restano a casa.
In altre parole, secondo lei non è stato sufficiente neanche schierare un candidato forte come Ricci?
Esatto. Ricci era un nome importante, ex sindaco di Pesaro ed eurodeputato molto votato. Ma i fattori locali non spiegano da soli il risultato. La sua vicenda giudiziaria ha pesato, certo, e il governo ha messo sul piatto risorse e investimenti, come sempre accade quando c’è una campagna elettorale regionale. Tuttavia, ciò che conta davvero è la crisi di partecipazione. Non bastano i nomi forti se non si ricuce il legame con il popolo.
Molti commentatori parlano di sconfitta dei moderati. Lei concorda?
Io faccio fatica a capire oggi che cosa significhi “moderato”. Questo “riformismo”, questo centrismo di cui tanto si parla si riferisce ancora a un impianto ideologico liberista che è fallito. Non è su quella piattaforma che si vincono le elezioni. Anzi, quell’agenda la porta avanti già il governo Meloni, che a parte qualche misura simbolica non si distingue molto dall’impostazione economica di Draghi. Il problema non è trovare il candidato centrista giusto, il problema è recuperare metà del Paese che non va a votare.
Quindi il nodo vero non è il centro, ma chi resta fuori dal gioco?

Sì. L’area cosiddetta centrista ha già un’offerta politica a cui rivolgersi. Il cuore della questione è che milioni di cittadini – spesso quelli più colpiti dalla crisi economica – non si sentono rappresentati. È lì che il centrosinistra dovrebbe guardare, non alle alchimie da salotto su questo o quel leader.
Durante la campagna si è parlato molto di Gaza, di Ucraina, persino di vicende internazionali lontane dalle Marche. Crede che questo abbia inciso sull’astensione?
Sì, perché sono temi che toccano direttamente la vita quotidiana. Penso in particolare alla guerra in Ucraina: costa energia più cara alle nostre imprese, restringe i margini economici delle famiglie, eppure centrosinistra e centrodestra hanno posizioni indistinguibili. A mio avviso, serviva una voce chiara che dicesse “basta guerra, si negozi con la Russia”. Non c’è stata. Così non si intercettano né i bisogni delle imprese né quelli dei lavoratori.
Quindi non solo non si è parlato abbastanza di Marche, ma quando si è parlato di politica estera lo si è fatto senza differenze?
Esatto. È mancata una parola alternativa. E senza una parola alternativa, senza una proposta che tocchi le corde delle difficoltà reali, gli elettori non trovano motivi per recarsi alle urne.
Ricci ha parlato di una partita impossibile, “da solo contro Giorgia Meloni”. È d’accordo con questa lettura?
Non del tutto. I leader nazionali del centrosinistra hanno fatto la loro parte, ma la caduta verticale della partecipazione non si spiega con la campagna in sé. È un problema più profondo: una distanza strutturale tra sinistra e popolo. Finché non ci saranno parole d’ordine chiare e distintive che parlano alle sofferenze sociali, la gente non tornerà a votare.
Guardando alle prossime regionali, dobbiamo aspettarci altri campanelli d’allarme?
I campanelli d’allarme ci sono già stati tutti. Dalla Sardegna all’Abruzzo, dalla Liguria al Piemonte. Pensare che Toscana, Campania o Puglia siano “già vinte” è un’illusione. Certo, in alcuni territori ci sono radici storiche che contano, ma se non si cambia rotta sull’agenda economica e sociale, il copione sarà lo stesso: tanta gente rimarrà a casa.
In questi giorni si parla del modello Genova-Salis come nuova formula per rilanciare la coalizione. Cosa ne pensa?
Francamente, sono chiacchiere da salotto. Ogni due o tre mesi esce un jolly: prima il sindaco di Milano, poi l’ex presidente dell’Agenzia delle Entrate, ora quello di Genova. Ma non funziona così. Non è la figurina nuova in prima pagina a risolvere i problemi. Bisogna tornare ai fondamentali: linguaggio, agenda, priorità che parlino alle angosce delle persone più in difficoltà.
In sintesi, qual è il messaggio che il centrosinistra dovrebbe cogliere da questa sconfitta?
Che il tempo è scaduto. Se non si riconnette con il popolo – quello che lavora, quello che soffre, quello che non trova più risposte – il rischio non è perdere contro la destra, ma perdere contro l’astensione. E quando l’astensione diventa il primo partito, la democrazia si indebolisce per tutti.
(Max Ferrario)
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