Jihad Al-Shamie, cittadino britannico di origini siriane, è l’autore dell’attacco alla sinagoga di Manchester nel quale sono rimaste uccise 2 persone
Yom Kippur. Espiazione, pentimento. Ci sono gesti, trame, fatti, che non necessitano di molte spiegazioni: occorre semplicemente vedere quando e come si svolgono, coglierne tutta la loro portata simbolica. Così non serve alcun esercizio di fantasia nello scorgere una connessione profonda tra il comportamento imputato allo Stato di Israele, ritenuto dalla gran parte dell’opinione pubblica mondiale – ancor più che dai governi degli Stati stessi – come il principale problema alla pace e alla stabilità del Medio Oriente, e l’attentato che ha insanguinato l’esterno della sinagoga di Manchester nel giorno, appunto, dello Yom Kippur.
Alle 9.30 di ieri mattina un uomo, alla guida di un’auto, si è lanciato contro la sinagoga di Heaton Park, nel nord della città: dopo aver investito diverse persone, si è scagliato con un coltello contro altre e, dopo aver ignorato gli altolà dei poliziotti di guardia, è stato abbattuto a colpi di pistola. Prima di cadere, però, è riuscito a uccidere due persone e a ferirne gravemente molte altre.
Sconcerto e paura hanno attraversato la comunità ebraica inglese e, di riflesso, dell’intero vecchio continente. Questo rito di espiazione, di cui si conosce ancora poco, ma che si presenta di immediata decifrazione, riporta a galla lo stigma antico per cui non sono le pratiche vergognose di un governo ad essere sul banco degli imputati, ma l’appartenenza stessa ad un popolo.
Essere ebrei, nel 2025, ha assunto toni e contorni inaspettati: battute, frasi, paragoni ritenuti inauditi fino a qualche anno fa sono oggi gli elementi cardine di molte conversazioni tra i più giovani, di diversi scambi sui social o al bar, di sottili ironie che lambiscono un po’ tutto, anche il discorso pubblico.
È il ripresentarsi sul palcoscenico della storia di un marchio di infamia e di sospetto che ha sempre accompagnato il “popolo eletto” e che solo la tragedia dell’olocausto aveva ipocritamente allentato. Adolf Hitler non fu un fungo sorto dal vaneggiamento di una teoria, ma un tassello preciso, chirurgico, che ben si incastonava in secoli di fraintendimenti, di denunce, di contraddizioni.

L’antisemitismo non è una patologia passeggera e crudele, ma una costante della storia dell’Occidente. Fin da prima del cristianesimo. È la dinamica, come si accennava poc’anzi, dello stigma, di una convinzione che si impone sulla realtà e che persuade un’intera collettività. Non importa quanto essa sia vera: la sua forza sta nell’innestarsi in una diversità visibile a tutti e percepibile da tutti come un’anomalia.
Più che una verità impazzita, è una verità interpretata, riletta, manipolata. In alcuni frangenti può sembrare superata, argomento del passato, ma basta un nulla – basta che quell’anomalia riaffiori – che lo stigma si riprende la scena come se niente fosse, come se niente di terribile avesse mai avuto luogo a causa di quell’idea, di quel pregiudizio, di quell’atavica asserzione.
Il modo con cui Israele ha reagito all’attacco del 7 ottobre 2023, le stesse dinamiche che hanno portato a quell’attacco, e l’offensiva su Gaza e sulla Cisgiordania, hanno radicalmente cambiato lo sguardo degli occidentali sul popolo di Mosè. Cose trattenute per decenni sono state liberate, tensioni sopite in nome di un doloroso senso di colpa si sono d’improvviso slatentizzate.
A questo punto non basta “fare la pace”, non basta “chiudere la guerra”, non basta neppure coprire con altra retorica la narrazione del dolore dei sopravvissuti. Tutto oggi Israele appare tranne che una nazione guidata da vinti. I due anni di questa guerra, che tra qualche giorno si compiranno nello scoramento generale per il destino del popolo palestinese, riconsegnano alla comunità internazionale uno Stato – e un’intera etnia – che è di nuovo sotto processo, sotto accusa, che a dire di molti “ha sollevato la maschera” mostrando il proprio vero volto.
Per questo un uomo che a Manchester punta a fare una strage fuori da una sinagoga gode di poco spazio sui siti di mezzo mondo o sui giornali dell’Occidente. Al primo posto c’è Gaza, il martirio dei palestinesi. Per gli ebrei resta molta fredda cortesia e una richiesta ancor più glaciale: Yom Kippur.
La palla, adesso, passa di nuovo alla storia. E non è detto che, date le premesse, essa si presenti più clemente o meno segnata della volta scorsa. Episodi come quelli di Manchester ci aprono gli occhi e ci mostrano che essere ebrei è di nuovo, senza tanti giri di parole, una questione tremendamente complicata.
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