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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LEOPARDI/ E le “Operette morali”, la promessa scritta nel cuore è più forte di ogni illusione

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LEOPARDI/ E le “Operette morali”, la promessa scritta nel cuore è più forte di ogni illusione

Uberto Motta
Pubblicato 7 Ottobre 2025 - Aggiornato 8 Ottobre 2025 ore 04:22
Gli studenti della Scuola Don Gnocchi in scena (foto CMC)

Gli studenti della Scuola Don Gnocchi in scena (foto CMC)

Il CMC apre l’anno con una rappresentazione teatrale delle "Operette morali" di Leopardi. Un "manifesto esistenziale" che parla ai cuori di ogni tempo

Il 9 ottobre il Centro Culturale di Milano (CMC), insieme al Teatro Franco Parenti, apre la stagione 2025-26 con una rappresentazione teatrale delle Operette morali di Giacomo Leopardi curata dal Laboratorio teatrale della Scuola superiore Don Gnocchi di Carate Brianza, per la regia di Andrea Carabelli. Un confronto sull’uomo, sul suo volto, sull’infinito che alberga nel suo cuore e sulla condizione del mondo in cui vive.  Alle Opere morali di Leopardi è dedicato questo articolo di Uberto Motta (ndr). 


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Se della provocazione leopardiana si volesse misurare, onestamente, la radicalità, in una prospettiva un poco consona alla nostra educazione, sarebbe forse sufficiente mettere a confronto due momenti, nella lunga (e tormentata) storia della ricezione del pensiero e dell’opera del poeta di Recanati.

27 giugno 1850. Le Opere morali vengono condannate nell’Indice dei libri proibiti con questa motivazione: simili testi sono “improntati in più luoghi di funesto scetticismo e fatalismo il più desolato”, al punto che “non può riuscirne che di grave pericolo la lettura massimamente per la celebrità dello scrivente”.


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24 marzo 1983. In occasione di un incontro sul tema L’uomo è tensione alla verità, don Luigi Giussani tiene la lezione Giacomo Leopardi al culmine del suo genio profetico, in cui, tra l’altro, afferma: “La negazione in Leopardi, quella negazione che mi aveva così psicologicamente ferito, è posticcia, è come un manifesto incollato a viva forza e male su un grido così umanamente vero che del grido umano non poteva non testimoniare la promessa strutturale”.

L’aporia, generata da simile divaricazione di giudizi, misura precisamente l’attualità e utilità di Leopardi per quanti, oggi, non si rassegnino a una soluzione prêt à porter. È innegabile, infatti, che al di sotto della desolazione e della sfiduciata diffidenza che, progressivamente, si affermano quale centro di irradiazione della scrittura leopardiana, nelle Operette morali come nei Canti permane il grido di un uomo ferito, deluso dal tradimento che gli è parso di sperimentare, dalla distanza incommensurabile avvertita tra la portata del proprio desiderio e le offerte della vita pratica. La sua protesta e la sua sofferenza possono così, originalmente, testimoniare che, nel cuore di ogni individuo, è scritta una promessa, generatrice di domanda e di attesa: ed è rispetto ad essa che ciascuno è chiamato a una personale, quotidiana verifica.


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Il punto di partenza andrà riconosciuto, ancora una volta, nella cruciale pagina dello Zibaldone, che Leopardi, ventiduenne, redige nel luglio del 1820: “L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità”.

Rispetto a simile aspirazione, a simile esigenza di pienezza e compimento e soddisfazione, la vita non offre però che risposte limitate, effimere, contingenti: irriducibilmente inferiori, e dunque frustranti. Chiediamo felicità piena, una – scrive Leopardi – “infinità di piacere”, e quel che segue sono, nel migliore dei casi, soddisfazioni circoscritte e momentanee, conseguendone la delusione sistematica, e con essa “il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo”.

La biblioteca di Palazzo Leopardi, Recanati (Ansa)

Quanto più siamo vivi, cioè coscienti e consapevoli della nostra umanità, tanto più dobbiamo ammettere la tragica sproporzione tra preghiera (del cuore) e offerta (del mondo). La “sublimità del sentire” e il limite della “realtà” (secondo i termini impiegati da Giussani) entrano in collisione, e da ciò derivano, alternativamente, lo sconforto più nero oppure, a non volersi arrendere allo scacco, la “sollecitazione al ‘sogno’”, che Leopardi, a sua volta, chiama “facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono”.

In questa prospettiva, non sarebbe improprio scorgere una fondamentale (ma anche sconcertante), seppur parziale, convergenza tra l’esperienza o parabola leopardiana e quanto si legge nel capitolo 8 della Lettera ai Romani.

Anche per san Paolo, infatti, essenza dell’esserci è l’attesa, ovvero il mancamento, dentro cui si radicano il desiderio e la speranza: “tutta insieme la creazione geme e soffre”, “sottoposta alla caducità”, alla “schiavitù della corruzione”, e pertanto è protesa verso ciò che si situa al di là delle nostre forze e misure.

Evidentemente, a tale diagnosi, che riguarda (con Giussani) “l’esperienza di sproporzione tra fattori che ci costituiscono”, tengono dietro vuoi l’annuncio di Paolo (la “buona novella”), vuoi il sogno di Leopardi, che da quell’annuncio sembrerebbe non essere mai stato raggiunto o toccato.

Ma, come la vicenda leopardiana, puntualmente registrata e messa a fuoco nelle sue opere, dimostra, sogno, immaginazione, illusione sono succedanei, e non bastano. La pagina dello Zibaldone datata 5 novembre 1823 è, al proposito, spietata: “Il giovane che al suo ingresso nella vita, si trova, per qualunque causa e circostanza ed in qual che sia modo, ributtato dal mondo, […] il giovane, dico, che o da’ parenti, come spesso accade, o da que’ di fuori, si trova ributtato ed escluso dalla vita, e serrata la strada ai godimenti […], tutta, dico, questa forza e questo ardore che lo spingevano verso la felicità, l’azione, la vita, ei la rivolge a proccurarsi l’infelicità, l’inattività, la morte morale”.

La riflessione del recanatese non potrebbe essere più attuale, deducendosene la responsabilità – oggi più che mai accresciuta – di genitori, educatori e maestri. Non a caso, infatti, sei mesi dopo quell’appunto, nel maggio del ’24 Leopardi scrive il Dialogo della Natura e di un Islandese, da lui stesso ritenuto il testo della resa, un punto di non ritorno nella propria storia, fondato sul riconoscimento di un’inimicizia tra l’uomo e il mondo in cui vive.

L’opportunità delle Opere morali, come sfida alla coscienza e alla responsabilità di tutti, è quindi lampante, nella misura in cui questi testi valgono a impedire che l’intelligenza sia messa in scacco dagli alibi, dalle rimozioni e dalle tante minime gratificazioni elargite in un mondo ridotto a supermarket.

Non si scappa: o l’annuncio (e dunque il testimone), o il Cantico del gallo silvestre, che Leopardi scrive nel novembre del 1824, quale inno al nonsenso della vita, in una sorta di estasi contemplativa di fronte al nulla, di nichilismo cosmico, in cui non è difficile vedere una lancinante profezia della disincarnazione da cui siamo minacciati, e forse ormai assediati.

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Tutte le informazioni sul sito del Centro Culturale di Milano: centroculturaledimilano.it

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