Nel film horror "The Conjuring - Il rito finale" vengono compiute delle scelte di racconto che appaiono vicine alla serialità televisiva
Essendo divenuti i film dei “prodotti audiovisivi” che stanno dentro un mercato crossmediale, anche il cinema più tradizionale come l’horror diventa materia per universi condivisi. The Conjuring, se non il primo caso, è di sicuro quello di maggior successo e interesse: partito nel 2013 con il primo film che raccontava le vicende della famiglia Warren, ha dato vita a una serie principale di quattro film, due serie spin-off (Annabelle di tre film e The Nun di due film) e un paio di film sfusi, tutti o quasi di grande successo.
The Conjuring – Il rito finale dovrebbe essere l’ultimo a vedere impegnati in evocazioni ed esorcismi i coniugi Warren, stavolta alle prese con il caso (anch’esso realmente accaduto, come tutti quelli della serie principale, come realmente esistiti sono i due sensitivi) della famiglia Smurl, che comincia a passare letteralmente le pene dell’inferno a causa di un antico specchio infestato, uno specchio che Lorraine (Vera Farmiga) conosce molto bene.
Alla regia Michael Chaves, già dietro la camera del terzo film, Ian Goldberg, Richard Naing e David Leslie Johnson-McGoldrick alla sceneggiatura per una chiusura del cerchio che potremmo chiamare Fase Uno ad accostare questo franchise a quello Marvel: perché mentre Lorraine ed Edward (Patrick Wilson) si congedano dalla vita attiva come occultisti, il film parrebbe coltivare la figlia Judy (Mia Tomlinson) come nuova guerriera contro le forze del Male.
E di fatto il film sembra più interessato alla vicenda familiare dei Warren, messa in parallelo con quella degli Smurl, confermandosi ancora una volta come il suo cuore sia nel dramma familiare più che nei jumpscare o nelle apparizioni infernali, o meglio, gli elementi horror definiscono il percorso sentimentale. Se si è fan della serie e ci si è affezionati ai personaggi, tutto ciò è inevitabile, però non si può fare a meno di notare come questo modo di raccontare sia più vicino alla serialità televisiva, alle modalità di quella che in Italia chiamiamo fiction, con le vicende domestiche e sentimentali a edulcorare, a rendere più accessibili le trame di genere, a confortare il pubblico tra uno spavento e l’altro.

È senza dubbio una scelta vincente, quella che ha reso la serie popolare e di una popolarità crescente, che ha aperto il marchio anche a pubblici non avvezzi al genere, rendendo quest’ultimo capitolo quello di maggior successo del franchise e il sesto film più ricco della storia dell’horror (460 milioni d’incasso, di cui quasi 10 in Italia).
Inoltre, porta alla luce una delle caratteristiche dei film di esorcismi e possessioni, ovvero la sua anima profondamente cattolica che rende il filone la versione mainstream di una tendenza, quella del cinema religioso e confessionale, che negli Usa è una nicchia forte, consolidata e in espansione, anche grazie all’aria politica che spira nel Paese, ma che è abituata a muoversi fuori dalle major (per approfondire clicca qui), mentre qui c’è Warner Bros a supervisionare e distribuire.
Per esempio, il film comincia con un vero e proprio miracolo, la resurrezione di una neonata e fa della fede in Dio il vero super potere della coppia, anche se a differenza dei film cristiani propriamente detti, The Conjuring – Il rito finale non vuole evangelizzare lo spettatore, si limita a gettarlo nel solito apparato di spaventi, immagini inquietanti, pericoli alla stabilità mentale e familiare gestiti con mestiere sufficiente a non far pesare troppo la banalità del tutto.
Pura dignità seriale, per un film che fa il minimo indispensabile dal punto di vista dell’orrore, accontenta i fan della saga, ma probabilmente lascerà un po’ freddi tutti gli altri.
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