Un'occupazione tardiva per Gaza, poi una lezione su Leopardi. Il pericolo della scuola non sono le idee campate in aria, ma l'indifferenza
Nella mia scuola c’è stata per tre giorni occupazione. Rispetto a molte altre scuole della mia città, che almeno hanno occupato durante i bombardamenti su Gaza, la mia si è svegliata tardi ed ha deciso di farlo a tregua raggiunta, con il seguente striscione: “Questa non è pace”.
Quando ho provato a parlare con qualche studente, ho constatato che la maggioranza degli occupanti (meno di una cinquantina, diventati circa duecento durante la notte), non solo non avevano letto i venti punti della proposta di pace, ma non avevano contezza di quanto stia succedendo in Medio Oriente e spesso neanche di dove sia il Medio Oriente.
Sono sinceramente turbati dalla strage di Gaza, ma senza conoscenza politica, storica, geografica: gridano “Dal fiume al mare” e non sanno di che fiume si tratti e non hanno idea che il Giordano non sfiora neanche la striscia di Gaza e che dunque quello slogan intende altro che la cessazione dei bombardamenti su Gaza.
Poi da lunedì l’occupazione è finita. Oggi esco da un’ora di lezione in una quinta, su Leopardi; una lezione in cui, insieme agli studenti, ci siamo immersi nella lettura e interpretazione del pensiero di Leopardi; lo abbiamo ascoltato, compreso, discusso; abbiamo paragonato le sue parole con la nostra vita, abbiamo provato a prendere posizione rispetto alle sue domande e provocazioni. Insomma, quando è suonata la campanella, nessuno si è mosso, volevamo tutti restare lì a continuare lezione. Perché ci stava accadendo qualcosa, ci era accaduto qualcosa.
Ne Il mestiere di vivere Pavese scrive: “La poesia (dignità cosmica del particolare) nasce dagli istanti in cui leviamo il capo e scopriamo con stupore la vita nel suo significato. Anche la normalità diventa poesia, quando si fa contemplazione, cioè cessa di essere normalità e diventa prodigio”. Ed un prodigio è accaduto fra le quattro mura di quella classe, facendo letteratura.

Ne siamo usciti intensamente commossi, tutti, io e gli studenti; cambiati, io e gli studenti; accresciuti nella consapevolezza di noi, del valore e del senso della vita; del valore e del senso che può svelarsi a scuola, in una normale ora di lezione.
Ma cosa c’entra tutto questo con l’occupazione? Quello che mi ha colpito dell’occupazione non sono stati tanto gli studenti che l’hanno fatta: ero preparato alla loro inconsapevolezza, avendone viste tante di occupazioni, anche se mi amareggia sempre. Questa volta mi hanno colpito di più gli studenti che non l’hanno fatta: la stragrande maggioranza. Aleggiava fra loro un sentimento comune, avvilente, di indifferenza, traducibile in questi termini: in fondo perdere dei giorni di scuola non è un grande problema, non è rilevante, anzi, è una curiosa, eccitante sospensione della banale, insopportabile routine. Mentre pochi ragazzi si sono impegnati per una battaglia in cui credono (che io ritengo sbagliata), la maggior parte ha “goduto” di questa pausa della didattica, senza battere ciglio.
Quello che mi colpito, insomma, è il senso di disvalore, palpabile per tanti nostri studenti, della scuola. Ed ho paura che questo possa essere vero anche per tanti, tanti docenti.
Ma questa intuizione è divenuta piena consapevolezza al termine della lezione su Leopardi, così vera, così decisiva per la vita, così “reale”! Allora ho detto ai miei studenti: “Ragazzi, ecco perché occupare è sbagliato, perché ci toglie la possibilità di vivere questa esperienza di bellezza, questo avvenimento che a noi è successo”. Ed è stato bello vedere con quale gravità e comprensione i miei studenti hanno assentito. Improvvisamente l’espressione astratta ed algida “diritto allo studio”, per quei ragazzi, si è riempita di senso, di valore, di gusto, ed è stato chiaro di cosa siamo stati privati con l’occupazione.
Poi, però, ho riflettuto: ma quante volte la scuola è, davvero, questa possibilità di crescita personale? Quante volte le ore di lezione sono il regno di questa bellezza, intensità, profondità?
Quante volte, insomma, la scuola è una reale, affascinante alternativa alla solleticante novità di un’occupazione?
Come ho già detto, sono contrario all’occupazione nel merito e nel metodo, ma non posso negare che la questione che ho sentito più urgente è stata un’altra: che responsabilità abbiamo, noi docenti, nella percezione di inutilità della scuola che i nostri studenti si portano addosso? Per cui sentono così semplice, ovvio, perdere giorni e giorni di scuola? Noi docenti crediamo davvero nel valore della lezione? Innanzitutto per noi, e quindi anche per i nostri ragazzi!
Continuerò a giudicare negativamente le occupazioni e a contrastarle, per quanto mi sarà possibile, ma capisco che il problema della scuola è più ampio ed inizia nella normalità del quotidiano, non nell’esplodere effimero di un grido di rabbia.
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