Tra le ragioni che complicano il finanziamento delle paritarie ci sono due fattori combinati, l’inverno demografico e il numero dei docenti statali
In un interessante articolo di qualche giorno fa, Giorgio Chiosso ha ripercorso le ragioni politiche e culturali per le quali la prospettiva della libertà di scelta fra scuole statali e paritarie gli appare oggi seriamente compromessa.
A queste ragioni, il cui peso è certamente rilevante, credo se ne debba aggiungere un’altra, di minore rilievo culturale, ma di non minore forza nell’orientare le scelte del decisore politico. Si tratta di uno dei tanti risvolti dell’attuale decremento demografico. Ecco alcune considerazioni.
Nel 2021, dati ministeriali indicavano il numero complessivo di studenti delle scuole statali in 7.400.000 circa (a fronte di 814.000 nelle scuole paritarie). Il numero totale degli insegnanti statali era, nello stesso periodo, di 709.000 unità a tempo indeterminato, cui si aggiungevano 234.000 docenti a tempo determinato.
Una parte di questi ultimi lavorava a tempo parziale: e quindi il totale di posti-equivalenti, cioè a tempo (e stipendio) pieno non era pari alla somma dei due parziali. Non esistono cifre ufficiali in merito: ma non si va lontani dal vero stimando che il numero di posizioni a stipendio pieno fosse dell’ordine di 830.000.
Non esistono numeri altrettanto dettagliati per ciascuno degli anni successivi fino ad oggi (2025), ma almeno il numero degli studenti è conosciuto. Esso è sceso di circa 120.000 unità l’anno e la stima – visto che i fenomeni demografici tendono ad accelerare nel tempo – è che nel 2030 gli studenti delle scuole statali saranno intorno ai 6 milioni.
Il rapporto docenti/alunni nelle scuole statali, secondo le statistiche ufficiali, è di circa 1:10. In realtà, come si vede dalle cifre sopra riportate, che sono anch’esse di fonte ufficiale, se si considerano anche i posti a tempo determinato, quel rapporto scende intorno a 1:9.
Dunque, una perdita di 1.400.000 studenti (da 7,4 a 6 milioni) dovrebbe comportare una riduzione nel numero degli insegnanti di circa 150.000 unità. In realtà, almeno fino ad oggi, non è stato così. Anzi: a fronte di circa 28.000-30.000 pensionamenti l’anno, le nuove immissioni in ruolo si collocano intorno alle 40.000 unità.
È vero che una parte di tali assunzioni erode la platea dei posti disponibili per rapporti a tempo determinato. Non esistono dati certi ed aggiornati in merito: ma non si andrà lontani dal vero stimando che il numero totale degli insegnanti, almeno dal 2021 ad oggi, sia rimasto sostanzialmente costante. Il che comporta un aggravio crescente per le casse dello Stato, non fosse altro che per le dinamiche salariali.
Un altro dato ancor più difficile da stimare, ma anch’esso connotato da numeri importanti, è quello del personale ATA. Il loro numero complessivo è di circa 200.000 unità, cui va aggiunto almeno un 10% di posti a tempo determinato. In questo caso è più difficile stimare il rapporto con il numero degli studenti, perché il loro organico è collegato al numero delle classi e quindi include una variabile intermedia (quanti studenti per classe) che complica i conteggi e rende aleatorie le stime. Ma, insomma, si tratta pur sempre di un 20-25% almeno di dipendenti in più rispetto al totale dei docenti. A stipendi inferiori, è vero, ma comunque con un insieme non trascurabile.

Come ricadono questi numeri sulla questione della libertà scolastica, apparentemente di natura del tutto diversa?
Purtroppo, l’impatto c’è ed è pesante. La conseguenza immediata dei dati sopra riportati è che le finanze statali sopportano già oggi un onere crescente per mantenere un numero di dipendenti “propri” che non scende con la stessa dinamica della popolazione studentesca (anzi, non scende affatto).
A misura che tale disequilibrio si accentua, la difficoltà finanziaria si farà sempre più importante, considerando che il decremento demografico, per altro verso, erode anche le entrate fiscali.
E dunque, di qui al 2030, il decisore politico dovrà prendere decisioni dolorose ed impopolari rispetto alla platea dei propri dipendenti, che dovrà necessariamente essere incisa in misura sensibile. Non è verosimile che, in tale contesto, possa pensare di farsi carico anche di alcune decine di migliaia di stipendi per i docenti delle scuole paritarie.
D’altra parte, se queste ultime debbono continuare a sostenersi quasi esclusivamente con le rette a carico delle famiglie, è fatale che la libertà di scelta si restringa ai beati possidentes, cioè a quella frangia di utenza per cui quel costo è economicamente sostenibile. Una quota, purtroppo, in costante diminuzione.
Una scelta come quella fatta dalla Francia, la cui storia e le cui dinamiche sociali sono per molti versi simili alle nostre, appare dunque molto improbabile. Avremmo dovuto farla molti anni fa, quando forse ve ne erano le condizioni: come fece appunto il Paese vicino, che vi si risolse nel 1959, con la legge Debré.
Da allora, in quel contesto, una percentuale di studenti sostanzialmente stabile, e vicina al 20%, frequenta senza grandi scossoni scuole sous contrat, come sono chiamate le scuole paritarie. I gestori di tali istituzioni devono sostenere con le rette dei genitori solo i costi degli edifici e dei servizi, mentre i docenti sono pagati direttamente dallo Stato.
Come unica contropartita, questi devono essere scelti negli elenchi pubblici degli insegnanti abilitati (gli stessi cui attingono anche le scuole statali e gli uffici scolastici territoriali), ma senza vincolo di graduatoria. Questo permette alle scuole paritarie di adottare un proprio progetto educativo e di assumere gli insegnanti che siano più idonei a realizzarlo: ed alle famiglie di scegliere in una pluralità di offerte formative in base alle proprie opzioni culturali e di appartenenza, indipendentemente dalle loro possibilità economiche. Cioè l’essenza stessa della libertà scolastica, senza che ciò incida su un altro valore molto caro alle autorità transalpine, e cioè la laicità del sistema scolastico pubblico nel suo insieme.
Le scuole sous contrat, come si è detto, sono sempre rimaste intorno al 20% del totale dell’utenza e quindi non rappresentano un fattore destabilizzante rispetto alle dinamiche generali. Se mai, un potenziale rischio inizia a manifestarsi su un altro versante: quello della popolazione di religione islamica, che comincia a rivendicare un proprio sistema di parità più marcatamente connesso alle loro radici identitarie e religiose. Il che in prospettiva mina proprio quel presupposto che la legge Debré aveva fatto salvo e posto al riparo dalle contestazioni: la laicità del sistema ed insieme la libertà di scelta. Ma questo è un altro discorso, sul quale forse bisognerà ritornare.
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