Si susseguono i segnali di cedimento dell'Ue rispetto a misure considerate capisaldi del Green Deal varato negli anni scorsi
La notizia della morte del Green Deal è grossolanamente esagerata per dirla alla Mark Twain. Perlomeno questa l’opinione del responsabile della politica climatica europea Hoekstra, mentre, però, si susseguono i segnali di cedimento di Bruxelles su misure che nella precedente presidenza di Ursula von der Leyen erano considerate dei capisaldi della politica climatica del Vecchio continente.
La lista si allunga. Sospesa la rendicontazione di sostenibilità ESG per l’80% delle imprese. Azzerato l’obbligo per le grandi impese di fornire piani climatici. Rivisto il bando delle caldaie a gas. Si preparano misure più soft sulle emissioni auto e sul bando ai motori termici dal 2035. Viene posticipata l’entrata in vigore del l’ETS2, rafforzamento dell’attuale mercato regolamentato del carbonio.
Mentre altre regole ambientali sono in rampa di lancio per essere approvate dal Parlamento e Consiglio, si sta valutando una pausa sul meccanismo del Cbam, il dazio verde sulla CO2 incorporata nei beni importati in Europa inteso come strumento di armonizzazione climatica in sostituzione dell’eliminazione delle quote gratuite dei permessi di carbonio.
Intervistato da Politico, Wopke Hoekstra precisa che il riallineamento di alcune politiche ecologiche non significa rinunciare alle ambizioni ambientali dell’Europa. Infatti, la Commissione rimane saldamente ancorata all’obiettivo di taglio del 90% delle emissioni al 2040 seppure con delle aperture a dei meccanismi di flessibilità come i crediti internazionali di carbonio che consentono di delocalizzare gli sforzi di decarbonizzazione in Paesi terzi extra-europei pur contabilizzando lo sforzo in capo ai Paesi membri. Tuttavia, è evidente che non è facile trovare la convergenza tra clima, competitività e indipendenza.

Lo spostamento della strategia green verso un approccio più tecnico e pragmatico e meno ideologico è inevitabile, soprattutto visto come la Commissione è incalzata dall’alleanza del gruppo politico più grande: i Popolari, che assieme alla destra e all’estrema destra scavalcano la tradizione “coalizione Ursula” per mobilitarsi contro il declino industriale dell’Europa. Come Bruxelles viene sollecitata da Mario Draghi che non perde occasione – l’ultima l’altro giorno al Politecnico di Milano – per richiamare i vertici dell’Unione europea a svegliarsi sul fronte dell’innovazione e concorrenza.
Tra l’altro l’Ue è stretta nella morsa tra i dazi di Trump e la leva tecnologica-mineraria di Pechino che condiziona l’impulso protezionistico della politica industriale europea.
Infine, una considerazione d’ordine generale. Per anni l’Unione europea è stata un faro normativo, dalla politica climatica a quella digitale. Ora il secondo mandato della presidenza von der Leyen è caratterizzato dal susseguirsi di pacchetti “Omnibus” (7 atti nel 2025) che correggono gli eccessi di zelo in regole e protezione per i cittadini europei in diversi campi, dalla sostenibilità ambientale alla sicurezza alimentare, dalla privacy dei dati personali alle avvertenze sanitarie sulle confezioni.
In nome della semplificazione e della corsa alla competitività, il pendolo si sta spostando da quello che per sette anni è stato il marchio di fabbrica di Bruxelles: iper-regolamentazione preventiva e arbitraria ex ante e trascurando la neutralità tecnologica. Sarebbe giunta l’ora di preferire norme essenziali e basate su evidenze concrete.
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