Il coronavirus e le nostre paure

- Maurizio Vitali

Il coronavirus mette paura, inutile negarlo. Ma questa paura occorre guardarla in faccia, per impararne almeno qualcosa: chiederci di nuovo chi siamo

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Coronavirus in Italia (LaPresse)

E adesso non si può più cincischiare, traccheggiare, né buttarla in politica. Perché da un giorno all’altro per numero di persone infettate dal coronavirus siamo balzati in testa alla classifica dei paesi occidentali. L’Italia specie del Nord di colpo cambia vita: chiuse scuole, università, musei; giù la clèr dei bar dopo le 18; chiuso anche il Duomo di Milano. E gli oratori. E niente Messe (salvo andare a Torino). Via per favore dalle fabbriche quelli che hanno avuto ccoronavirus itaontatti con viaggiatori dalla Cina; dove si può, per tutti, telelavoro da casa. Casa dotata peraltro del necessario per resistere a una carestia: ieri è stata una domenica pomeriggio più che di calcio (cancellate le partite in Lombardia e Veneto), di corsa al carrello per far scorta di alimentari, perché non si sa mai.

È arrivata la paura. Da un certo punto di vista si direbbe: finalmente. Essa può aiutarci ad assumere comportamenti prudenti e responsabili, se ci prende in misura ragionevole e se trova un contesto favorevole: indicazioni chiare delle autorità competenti, abolizione delle recriminazioni tra le forze politiche, fiducia nell’ottimo sistema sanitario che abbiamo, cura della corretta informazione da parte di chi la divulga, attenzione all’attendibilità e autorevolezza delle fonti da parte dei fruitori. Orecchio da mercante alle chiacchiere da social. Imparare comportamenti virtuosi è un bell’esercizio di responsabilità verso se stessi e verso gli altri.

Tuttavia è il caso di guardarla un po’ bene in faccia questa paura, che ricorrentemente ci assale (per gli attentati terroristici, per un’epidemia, per l’Aids, la Sars, lo tsunami), e poi ci passa, di solito senza farci fare un passo avanti. Un filone di riflessione in questi giorni sembra essersi aperto sulla stampa, ho in mente in particolare il Corriere della Sera. In certi articoli di ieri (Severgnini, Battista) viene messo in luce che c’è una peculiare paura moderna che nasce in un mondo dove “la situazione è sotto controllo”, dove tutto si presume sottoponibile al controllo grazie al potere delle tecnoscienze, alla razionalità che tutto indaga, conosce, prevede e doma.

È indiscutibile che le scienze e le tecnologie hanno fatto enormi progressi; nel caso di questa epidemia, il virus è stato isolato in sette giorni e sequenziato in quindici, cioè in tempi rapidissimi. Ma non è vero che l’uomo abbia tutto sotto controllo. Questa presunzione spesso si rivela un’illusione e andiamo in tilt quando accade un imprevisto. Ma appena la situazione torna alla “normalità”, ce ne scordiamo. L’idea che ci sia una imprevedibilità non l’accettiamo, la esorcizziamo. Rovesciamo il famoso “un imprevisto è la sola speranza” del poeta Montale (“E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / che è una stoltezza dirselo.

La nostre paure rivelano generalmente un’insicurezza esistenziale di fondo e permanente. Per Zygmunt Bauman, essa è dovuta “all’indebolimento dei legami, allo sgretolamento delle comunità, alla sostituzione della solidarietà umana con la competizione”. Come scriveva Julián Carrón sul Corriere del 23 dicembre 2018: L’insicurezza esistenziale con cui l’uomo di oggi si trova a fare i conti lo fa precipitare nella paura. Quante situazioni non può controllare con le sue forze!” (“Natale, sorpresa contro la paura”, pag 1 e 28).

Per Antonio Scurati (Corriere di sabato) si ha la prova che la “modernità ha fallito”. Perché, ha scritto, “…nei nostri comodi letti insonni dei nostri accoglienti appartamenti d’Occidente… siamo al sicuro, siamo protetti, siamo ben coperti e, forse, proprio per questo, tremiamo al pensiero di una morte che giunga come ospite inatteso”. E ancora: “Non siamo più capaci di equilibrato, adulto, sano rapporto con la morte”; “è finita in crisi la cognizione della finitudine umana”.

Nelle società tradizionali (e più religiose) la morte era parte della vita, personale e collettiva; era parte della definizione stessa della vita (Huizinga), un evento familiare; per la società odierna la morte è estranea alla vita, e va rimossa. Ma i fatti, gli irriducibili fatti, ci riportano alla realtà e ci mettono davanti alla domanda: che senso ha vivere? perché vale la pena vivere? Si leggeva su un volantino di CL diffuso all’indomani della strage terroristica di Parigi nel novembre 2015: “Cercare una risposta adeguata alla domanda sul significato della vita è l’unico antidoto alla paura che ci assale”.

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