La vittoria dei miti

In questi giorni, tra israeliani e palestinesi, vi sono anche persone che rifiutano la violenza, che vorrebbero la pace e cercano di perseguirla

Che ne sarà, ora, che ne è dei semi di pace, sì, proprio dei semi di pace, umili tenaci attestazioni di una unica grande speranza contro ogni speranza nella squassata terra degli israeliani e dei palestinesi? In spem contra spem, ora che l’ultima parola è alle armi e alla distruzione? Ora che Gaza è un inferno  dopo l’inferno scatenato da Hamas il 7 ottobre? Ora che, mentre scriviamo, persone e opere buone possono essere state spazzate via per sempre: che ne sappiamo?

Avevamo annotato, in questi giorni angosciosi, voci e fatti di umanità resistenti alla barbarie.  Così da convincerci che non sarà infine (pur chissà quando) la barbarie ad avere l’ultima parola.  Ora di tutto ciò siamo indotti a dubitare: davvero saranno i miti a ereditare la terra? Che ne sa il vangelo di geo-politica?

Comunque, i miti ci sono. Esistono, e resistono. Sono controcorrente, liberi e coraggiosi. Sarebbe un delitto non dico solo ignorarli ma anche sottovalutarli.

I miti come Sarah Bernstein (il primo nome sui fogli di appunti), direttrice del Rossing Center for Education and Dialogue, organizzazione interreligiosa che lavora per la pacifica convivenza tra israeliani e palestinesi: “Il desiderio di vendetta è enorme. Ma dobbiamo evitare i linciaggi. O i sterminiamo l’un l’altro o impariamo a vivere insieme”, dice in un’intervista al Fatto quotidiano.

I miti come Edith Bruck, ebrea deportata ad Auschwitz e Dachau quando aveva tredici anni: “Si continua ad ammazzare – afferma in un’intervista a la Repubblica ­- in nome di Dio… Israele ha diritto di difendersi ed esistere, ma la vendetta non serve a niente… Sono tornata dai campi di concentramento senza odio, senza desiderio di vendetta; dopo la liberazione ho anche ceduto del cibo a dei prigionieri tedeschi, al di là della rete: ho dato quel poco che avevo. La vendetta non serve a niente”.

I miti come Noa, famosa cantante e compositrice, che si mostra sui social con una maglietta con la scritta “Solidarietà” in inglese, ebraico e arabo, e che indossa la stessa T-shirt con raffigurata l’amica palestinese Mira Awad con cui partecipò nel 2009 all’Eurovision Song Festival. “Quando piango, piango per entrambi, il mio dolore non ha nome”, ha scritto nel testo della canzone eseguita con la collega in quell’occasione. Lo ricorda ora, in un’intervista ad Avvenire; e aggiunge: “Il 7 ottobre è stata la cosa peggiore accaduta al popolo ebraico dopo l’Olocausto. Ma occhio per occhio ci renderà ciechi. Le persone con spirito di solidarietà, laboriose e amorevoli  salveranno infine questo Paese”.

E pensare che in tante piazze delle città europee continuiamo a riprodurre gli schieramenti contrapposti di israeliani e palestinesi, brandendo ciascuno come spranga le ragioni solo dell’uno e i torti solo dell’altro e censurando il viceversa. È un altro dei “miti” che ce ne mette in guardia: l’abate di San Miniato al Monte (Firenze), padre Bernardo Gianni, che ha dato vita a una fiaccolata di diecimila persone in compagnia del rabbino Gadi Piperno e dell’Imam Izzedin Elzir, uno accanto all’altro.

A proposito di imam e sheick, tra i miti va annoverato il palestinese Zuhar Debie che da mezzo secolo tiene il sermone nelle moschee di Nablus e in tutta la Cisgiordania, prigioni comprese:  “La gran parte dei fedeli – ha spiegato ad Avvenire – in questi giorni vuole sentire parole di vendetta. Ma da credente non posso accontentarli. Il Corano dice che chi uccide un innocente uccide tutta l’umanità e chi salva un ‘innocente salva tutta l’umanità… No alla violenza, l’invocazione è l’arma più potente, perciò aderisco con gioia all’invito del Papa alla giornata di preghiera e digiuno”. Lui, beninteso, sta dalla parte di chi combatte per mettere fine all’occupazione israeliana, ma “la resistenza non violente è l’unica soluzione, l’unica via per mettere fine al bagno di sangue”.

E i cristiani in Terra Santa? Costituivano una percentuale a due cifre della popolazione, ora a una cifra sola. Ma che testimonianza sono.

Rony Tabash, per esempio, mite palestinese cattolico che vive a Betlemme, vicino alla basilica della Natività di Gesù, in piazza della mangiatoia (e non lontano da un campo profughi, ogni tanto si sentono colpi di mitra) e vende, anzi vendeva,  articoli religiosi. Dice: “Siamo i soldati della mangiatoia. La nostra forza è quella culla di un Re senza armi”.

Mite, e forte come lo è chi non esclude il martirio, è tutta la piccola comunità cattolica di Gaza, parrocchia della Sacra Famiglia, un parroco, un vice, qualche suora e duecento anime su un migliaio di cristiani e due milioni e mezzo di abitanti.  Il parroco don Gabriel Romanelli di ritorno da Roma ha chiesto invano alle autorità israeliane il permesso di rientrare nella Striscia dai suoi.  Sono rimasti i duecento, nonostante l’intimazione da parte dell’esercito di evacuare verso il Sud, con alla guida il vice-parroco,  padre e Youssef Asaad, che ha aperto le porte agli sfollati e dato ospitalità e cibo nonostante la penuria a centinaia di palestinesi, forse mille.  “È una comunità oppressa e avrebbe tutto il diritto di lamentarsi e recriminare. Invece è attiva, e anche se è povera fa la carità a tutti”, aveva già detto il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, al Meeting di Rimini del 2022, “E non ho mai sentito da loro rancore e rabbia verso nessuno”.

“Non si può parlare di parlare di pace” disse ancora il quella occasione “senza usare la parola perdono che in Terra Santa è quasi un tabù. Il perdono assomiglia a una sconfitta, ma è l’unica cosa in grado di liberarci”.

La mite comunità della Sacra Famiglia risponde ogni giorno con forza alla logica della guerra  con la messa di primo mattino, il rosario, i salmi, l’adorazione del Santissimo, e una seconda messa a sera, cui partecipano uniti cattolici e ortodossi. Una testimonianza di fede e di carità operosa, lontana anni luce dall’odio e dalla volontà di potere.

“L’odio e la disperazione”  ha detto ancora Pizzaballa intervistato da Giancarlo Giojelli in diretta streaming per Tempi, “non sono l’ultima parola. Nella fede semplice e vera di gente che vive con una carità e una libertà incredibili, nei loro occhi e nella loro vita, incontro la Speranza che è Cristo Risorto. L’ultima parola l’avranno loro”. Loro, i miti. Che, in spem contra spem, ereditano la terra.

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