C'è da chiedersi se oggi sia praticabile una politica dei redditi come quella che venne messa in atto in Italia negli anni '90

Il presidente della Repubblica ha rilanciato la questione salariale come fatto incontrovertibile. E ha sollecitato correttamente – opportunamente – le forze politiche, economiche e sociali ad affrontare un’emergenza che investe la maggioranza degli italiani: quelli che di retribuzioni al lavoro dipendente vivono e i loro datori di lavoro, che quei salari e stipendi corrispondono dal bilancio delle loro attività d’impresa; oppure dal bilancio dello Stato.



Non vi sono dubbi che i sintomi dell’emergenza – le retribuzioni “basse”, ha sintetizzato Sergio Mattarella con indubbia efficacia – meritino un’attenzione tempestiva e prime cure. E in un’Azienda-Paese in cui il lavoro è divenuto un bene di mercato sembra spettare anzitutto alle parti sociali raccogliere l’appello del capo dello Stato (e forse bene sarebbe se anzitutto le organizzazioni sindacali ritrovassero la rotta della missione che viene riconosciuta loro dalla Costituzione).



Il Governo – così come l’opposizione parlamentare – non potranno naturalmente disinteressarsene. Ed è naturale riandare subito alla stagione della concertazione: quando il Governo di Carlo Azeglio Ciampi e le rappresentanze di lavoratori e imprese condivisero l’elaborazione di una “politica dei redditi”.

L’obiettivo era forte e chiaro: nel 1993 era ancora fresco l’inchiostro sui Trattati di Maastricht, che dichiaravano l’Unione europea e fissavano traguardi precisi, primo dei quali era l’euro. Fu quella la bussola del “Governo materiale” del Paese, nei fatti costantemente retto da Ciampi: come Premier, come ministro del Tesoro e infine come presidente della Repubblica, eletto non a caso poche settimane dopo il debutto dell’Unione monetaria.



Carlo Azeglio Ciampi (Ansa)

La politica dei redditi “concertata” fu pilastro di una strategia-Paese assieme alle privatizzazioni. Se ne possono ancora discutere i risultati, non il fatto che quell’Italia diede delle risposte di sistema a sfide di grande impegno.

È praticabile una politica dei redditi che nel 2025 sembra auspicabile se non addirittura indispensabile? Le condizioni politiche appaiono certamente diverse: il Parlamento appare più polarizzato che agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, quando pure maturò la cesura fra Prima e Seconda Repubblica, su molti versanti traumatica. Ma oggi appare soprattutto rovesciata la prospettiva, la sfida: trent’anni fa i salari andavano “moderati”, nella lunga exit dalla stagione della scala mobile; oggi i salari andrebbero invece aumentati.

Non per questo un tavolo concertativo appare proibitivo, anzi: sarebbe forse più utile ancora. Ma a patto di uscire dal “qui e ora”, dal puro rimpallo di accuse e pretese spesso strumentali: fra chi giudica i “salari bassi” la causa di una crisi socioeconomica (in parte lo è) e chi al contrario li considera la conseguenza di una fase involutiva dell’Azienda-Italia. Perché non ci sono dubbi che i salari stagnanti sono l’altra faccia di una produttività del lavoro stagnante. Che ha cause numerose e complesse.

Una nuova “politica dei redditi” – un trentennio dopo la prima – non può prescindere da tutto quanto è avvenuto nel frattempo: nell’economia italiana, europea, globalizzata. Sostenere le retribuzioni significa anzitutto leggere e ricostruire ciò che è “lavoro” oggi e soprattutto domani: e questo non esclude affatto mettere sotto esame critico un’economia in cui – ha ricordato Mattarella – pochi capi-azienda milionari dirigono il lavoro di milioni di dipendenti retribuiti ormai alle soglie di sostenibilità per bisogni primari come la casa (anche nell’orizzonte dell’emergenza demografica).

Un tavolo concertatorio sui redditi sarebbe probabilmente salutare anche per valutare l’emergenza migratoria fuori da schemi ideologici contrapposti. Sarebbe principalmente prezioso per rilanciare in via prioritaria gli investimenti sulla scuola e in generale sulla formazione del capitale umano: gli stipendi di domani saranno anzitutto la remunerazione delle competenze competitive che il sistema-Paese saprà offrire ai suoi cittadini più giovani.

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