Cosa potrà salvarci da questa “Matta bestialità”?

Viviamo tempi in cui la violenza sembra avere sempre il sopravvento, anche quando si tratta della morte di una persona

“Matta bestialità”. Nel canto XI dell’Inferno in queste due parole Dante identifica la violenza. Tanta esegesi e critica dantesca hanno discusso se la matta bestialità di cui Dante parla sia veramente la violenza o se tale definizione debba riferirsi anche ad altri peccati. In mancanza di ulteriori approdi interpretativi certi preferiamo attenerci all’interpretazione più tradizionale e più diffusa, che tra l’altro ci aiuta efficacemente a capire di cosa stiamo parlando.



Con due parole, infatti, matta e bestialità, Dante definisce in maniera assolutamente puntuale la natura della violenza. Qualcosa di irragionevole che ci avvicina agli animali. Qualcosa che nega la nostra natura di uomini. Qualcosa che non ha ragioni se non l’irragionevole affermazione di un animalesco potere di un uomo su un altro.



È violenza quella sulle donne, certo, ma vive e si alimenta in un clima culturale che ha fatto del potere infinito sull’altro una abitudine consolidata. È violenza trasformare ogni dissenso in aggressione e distruzione , come anche le cronache recenti documentano. È violenza confondere la guerra con la brutale e sistematica distruzione dei civili.

Scriveva recentemente Massimo Cacciari “assistiamo impotenti alla più formidabile de-costruzione di ogni forma di Diritto che sia mai esplosa in epoche di grande crisi”. E aggiungeva, riferendosi ai diritti umani che dopo il ’45 furono sanciti a Norimberga, “tra questi ve n’era uno che sembrava ormai impossibile dimenticare: un esercito non poteva far guerra alla popolazione civile”. Oggi viceversa questa ” prepotenza di immane dimensione” domina la scena mondiale.



Anche la morte di un uomo può essere “violentata” nel suo valore. Zagrebelsky in una recente intervista sull’omicidio Kirk afferma: “La morte degli esseri umani va rispettata, non strumentalizzata. La vita di ogni essere umano è un fine, non un mezzo. Il valore della vita è un valore assoluto. Il dovere è sempre quello di battersi per cambiare le idee, non per far sparire le persone. La democrazia è questo”.

Sono veramente tante, troppe, le circostanze in cui ci accorgiamo del dilagare tragico della violenza. E questo accade quando quell’animalesco istinto di potere di un uomo su un altro uomo diventa irragionevole tentativo di cancellare l’altro.

Ecco perché il clamore, sicuramente giustificato, dei fatti di sangue, non deve farci dimenticare che esiste una violenza non meno insidiosa di quella cruenta, che inevitabilmente però è destinata, come la storia ci insegna, a diventare anch’essa cruenta. È la violenza di chi cerca a tutti i costi l’affermazione delle proprie idee.

Con il realismo che gli era proprio scriveva don Giussani “anche il più sincero democratico soffre la tentazione di tenere come criterio reale della convivenza il trionfo del suo modo di concepire l’uomo e il mondo. Rendere questo non speranza, ma motivo e criterio dei rapporti, è violenza, è la violenza del tentato trionfo di un’ideologia, che elimina l’affermazione del singolo uomo libero. Bisogna che il criterio della convivenza umana sia l’affermazione dell’uomo in quanto è”.

Anche l’esperienza del presente ci mostra come l’ideologia, qualunque essa sia, se usata come fondamento del potere, diventa inevitabilmente violenza.

Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, durante la processione del 24 dicembre 2024 (Ansa)

Proprio in queste ore gli spiragli di possibili esiti positivi della guerra in Terra Santa allargano il cuore, riecheggiano come risposta a quell’ultimo desiderio di bene che abita il nostro cuore e che, come da tanti sottolineato, anche in questi giorni ha trovato espressione.

Nella recente intervista a Mario Calabresi il Cardinale Pizzaballa ha sottolineato: “Il dramma di Gaza ha tirato fuori una coscienza di dignità che giaceva inespressa nella coscienza comune”. E nel messaggio inviato a tutto il Patriarcato Latino di Gerusalemme ha ribadito: “Le immagini di Gaza hanno ferito nel profondo la comune coscienza di diritti e di dignità che abitano il nostro cuore”.

In questo sta la nostra speranza! Che il nostro cuore continui a sentire la ferita di ogni violenza. Che non ci abituiamo alla “matta bestialità” di pensare che l’eliminazione di chi ci è nemico possa renderci felici. L’esperienza della vita infatti ci dice che non è l’infelicità o la scomparsa di chi ci è nemico a rendere migliore la nostra esistenza.

È vero. Siamo pieni di istinti animaleschi, siamo capaci di violenza, ma quando qualcosa riesce a toccare il nostro cuore, siamo anche capaci di accorgerci della nostra vera natura di uomini. Siamo fatti per affermare l’altro e non per distruggerlo. Ognuno di noi ha bisogno di essere affermato. Ben sappiamo che il desiderio più grande che ci portiamo dentro è quello di un amore totale e infinito. Un amore che non siamo capaci di dare e che nessun uomo è capace di dare a noi.

Desideriamo qualcosa che ci corrisponde ma che è infinitamente più grande di noi. Possiamo solo custodire strenuamente questo desiderio perché se ci sarà dato di incontrare un amore così grande abbiamo il gusto di riconoscerlo e di seguirlo.

Come ha scritto ancora il Cardinale Pizzaballa, “vogliamo insistere a cercare vie di giustizia, di verità, di riconciliazione, di perdono: prima o poi, in fondo ad esse, incontreremo la pace del risorto”. E chi ha incontrato la pace e la compagnia di Uno che è risorto può “spingere altri a correre, ad aiutarci nel nostro cercare”.

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