Non basta nascere, ci vuole qualcuno che ti accolga: la storia del Tetto

Ci sono case famiglie in Italia che silenziosamente svolgono un lavoro molto importante per i minori e la loro crescita

Ci vuole qualcuno che ti accudisca, che ti nutra, che ti insegni, che ti educhi, che ti dondoli, che ti coccoli, che ti voglia bene. L’infanzia negata perché non ci sono genitori che facciano tutto questo è un grido silenzioso che chiede risposta. Il Tetto è una delle tante case famiglie che senza clamori, senza tante parole rispondono a questo grido.



Il fenomeno degli abbandoni e dei figli che non possono crescere per motivi di forza maggiore nella loro famiglia non è finito nel nostro secolo e in Italia.

Se una volta erano i conventi o gli orfanotrofi ad accogliere bambini oggi è la disposizione 149/2001 che norma oltre all’adozione i diversi tipi di comunità in grado di ospitare minori in stato di bisogno. Si hanno le comunità educative, caratterizzate dalla presenza di educatori professionali, che accompagnano i minori pianificando il loro percorso formativo; le comunità familiari (meglio conosciute come Case Famiglia) in cui vi è la presenza stabile di uno o più adulti, che accolgono i minori mediante l’affido temporaneo; le case madri-figli, che ospitano nuclei monoparentali (madre-bambino); le comunità alloggio e appartamenti destinate ad adolescenti e maggiorenni che sperimentano percorsi di semi-autonomia e autonomia; le case multiutenza e i servizi di pronta accoglienza.



Le “linee guida per l’accoglienza nei servizi residenziali per minorenni” approvate il 14 dicembre 2017 da un tavolo tecnico costituito dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, dal ministero della Giustizia, dalla Conferenza Regioni e Province autonome, dall’Anci e dalle diverse associazioni operanti nell’accoglienza di minori hanno tentato di armonizzare i regolamenti interni di ogni ente locale a riguardo di queste case, ma a oggi non sono state recepito da alcuna Regione.

I dati più recenti del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, soggetto competente in materia, ci parlano di circa 3.000 comunità (sia educative che familiari) suddivise tra le varie regioni italiane. Il numero dei minorenni allontanati dalle famiglie è in diminuzione rispetto agli anni precedenti: sono circa 26.000 i bambini/adolescenti che nel nostro Paese vengono allontanati dai nuclei familiari d’origine per essere collocati nei diversi servizi (12.000 in comunità e i restanti in affido familiare).



Un esempio virtuoso di queste realtà è la comunità del Tetto di Roma che quest’anno compie 40 anni. Ne fanno parte 5 case-famiglia (La Chiocciola, Narnia, Itaca, Terra di Mezzo e il Molo). Sotto lo stesso tetto anche una scuola che insegna italiano agli stranieri che si chiama Alfabeti del Mondo aperta a persone di ogni età che provengono dai 5 continenti arrivate in Italia con ogni mezzo e superando tante difficoltà. Oltretutto anche 4 appartamenti che ospitano ragazzi adulti in semi-autonomia. Tra questi ultimi alcuni agli arresti domiciliari e altri ammessi alla prova per aver commesso reati penali. In tutto circa 200 giovani compresi gli allievi di Alfabeti del Mondo.

Per mandare avanti questa gigantesca portaerei ci vogliono più di 50 educatori e una decina di persone in staff, tutti assunti a tempo indeterminato. Ogni comune in Italia può mandare ragazzini al Tetto attraverso gli assistenti sociali che rilevano un grave disagio in famiglia a tal punto che si richiede l’allontanamento del minore presso una struttura protetta.

A volte i ragazzi arrivano accompagnati da un piano terapeutico e poche righe che ne descrivono la complessità. Non si possono nemmeno immaginare le sofferenze che pesano sulle spalle di questi figli che vengono “adottati” dai loro educatori per diventare il loro nuovo punto di riferimento. Va precisato che gli educatori svolgono funzioni genitoriali, ma non sostituiscono i genitori. Raramente possono tornare presso la famiglia di origine qualora questa torni in equilibrio, oppure intraprendere il percorso dell’adozione. Di solito si cresce in casa famiglia fino a diventare maggiorenni e passare così alla semi-autonomia dove il percorso potrebbe concludersi con un avvicinamento concreto al lavoro.

Per questo la concezione del “Tetto” è di non limitarsi a un’accoglienza da vecchio orfanotrofio, ma di accompagnare la crescita integrale del bambino o ragazzo. A loro non dovrebbe più mancare nulla, compresa la frequenza a ogni genere di sport o alle università più prestigiose del mondo nel caso si manifesti il desiderio di continuare a studiare.

Il Tetto è dotato di sale da studio per il doposcuola e anche di micro-laboratori dove utilizzare l’intelligenza nelle mani. Si promuovono al suo interno dei mini-club culturali, musicali, di teatro, di cucina e altro genere di attività che aiutino a socializzare.

Uno dei temi sul tappeto è come aiutare il Tetto e strutture simili a contenere il più possibile i costi in attesa di un adeguamento delle rette per dare maggiori servizi a chi è stato privato dell’essenziale e non è giusto sia continuamente discriminato. Si pensi, per esempio, a una fidelity card attraverso la quale garantire la gratuità alle cure mediche non solo grazie all’abolizione del ticket sanitario, ma anche per le visite specialistiche comprese quelle dal dentista.

Il 3 febbraio scorso si è tenuto in Vaticano il summit internazionale sui diritti dei bambini presieduto da Papa Francesco. Ascoltare e accogliere i bambini che oggi vivono nella violenza, nello sfruttamento o nell’ingiustizia serve a rafforzare il nostro “no” alla cultura dello scarto e del profitto, in cui tutto si compra e si vende senza rispetto né cura per la vita, soprattutto quella piccola e indifesa.

Secondo la cultura efficientista, l’infanzia stessa, come la vecchiaia, è una periferia dell’esistenza. L’infanzia negata è un grido silenzioso che denuncia l’iniquità del sistema economico, la mancanza di cure mediche e di educazione scolastica. “Non vogliamo che tutto questo diventi una nuova normalità, non è accettabile e dobbiamo resistere all’assuefazione” (Papa Francesco).

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