Il piccolo miracolo di Leone

Le parole del nuovo Papa che hanno ricordato l'importanza di Cristo, ma forse per questo non hanno avuto una grande risonanza mediatica

E dai e dai, qualche parola cristiana è comparsa sui mezzi di comunicazione. Il nome stesso di Gesù: “Gesù non è Superman”, “Sparire perché rimanga Cristo”.

Anche se lo dice il Papa, non è scontato che il nome del Salvatore buchi schermi e corazze mass-mediatiche: per quanto il suo avvenimento sia la più clamorosa delle notizie, si pensa abitualmente che non faccia notizia. Può essere che in questo l’icasticità delle espressioni – quasi slogan – abbia aiutato i titolisti.



Superman ha fatto da traino a Gesù. Può anche darsi. Ma va registrato che dire Gesù nel discorso pubblico equivale a sfidare la tendenza consolidata nel sistema mediatico a trascurare quando il Papa parla di Cristo (“non interessa quasi nessuno”) e a riferire quando parla di pace, poveri, gay, ecc. (“interessano tutti”). Per farlo ci vuole coraggio. Un coraggio da Leone è il caso di dirlo. Il risultato è un piccolo miracolo.



Se si legge il proseguo delle due frasette sopra riportate, altro che slogan: siamo di fronte a lucidi giudizi e richiami programmatici, rivolti a credenti e non. Discorso pubblico, appunto.

Il primo richiamo è a prendere sul serio, e non invece ridurre, la “pretesa” di Cristo di essere riconosciuto come figlio di Dio. “Gesù non è Superman. Oggi non mancano i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto”.



Il secondo richiamo è a non affermare il proprio potere ma la sua gloria, a cominciare da chi esercita l’autorità, “Sparire perché rimanga Cristo. Farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo”. Lo scopo è la missione, non altro.

Rivolta a tutti.

Intendiamoci: queste sono due “miracolose” piccole eccezioni rispetto al trend generale è che è di interpretare, ridurre, incasellare il Papa in base a chiavi di lettura, prevalentemente politiche ma non solo, in cui le parole cristiane non contano e possono essere addirittura omesse. Un solo esempio, fra i moltissimi che si possono fare.

Papa Giovanni Paolo II inaugurò il suo pontificato con un appello memorabile: “Non abbiate paura!”, così si leggeva nei titoli; “Non abbiate paura, aprite le porte a Cristo!” erano le sue vere parole. Non c’è bisogno di spiegare la differenza, tanto è evidente. Né c’è neanche da scandalizzarsi che – stiamone pur certi – dopo le due eccezioni si tornerà alla norma.

Piuttosto c’è da chiedersi come mai è così radicata questa tendenza dominante a non usare le parole cristiane nella comunicazione. Qualcuno dice: colpa dei giornalisti, e se la cava così. Senonché bisogna ammettere che quasi nessuno usa parole cristiane nella sua normale comunicazione. Il che boccia risposte sbrigative. Il motivo è che, almeno normalmente e magari inconsapevolmente, per l’uomo di oggi “Dio, se c’è, non c’entra con la vita” (definizione di laicismo secondo Cornelio Fabro).

E non è un problema di coerenza, e nemmeno innanzitutto di ignoranza del catechismo, ma un problema di conoscenza della realtà e dell’uomo. In Al di là del bene e del male, Friedrich Nietzsche tagliava corto parlando di “intelligenza tanto ottusa [quella dell’uomo contemporaneo, ndr.] da non capire più il senso del linguaggio cristiano”. Ma non è l’ottusità dei singoli: è l’esito del processo culturale prevalente degli ultimi secoli, quello che ha portato alla mentalità così efficacemente sintetizzata da Fabro. Come hanno messo in luce De Lubac, Guardini, Dawson, Daniel-Rops e altri studiosi, segnatamente, tra gli italiani, Del Noce e Giussani.

Quest’ultimo, in La coscienza religiosa nell’uomo moderno, individua la causa primaria nella repressione del senso religioso, del “tentativo continuo di non farlo agire come un fattore esistenzialmente vivo operante nel dinamismo educativo, nel dinamismo dei rapporti sociali…”.

Ciò non significa che il senso religioso, il bisogno di un senso esauriente della vita, sia estinto. Esso è da un lato insopprimibile. Dall’altro lato ne possiamo registrare la presenza sia, per esempio, nell’affezione per la figura del papa, tanto più se insieme autorevole ed empatica, sia all’opposto in tanto malessere esistenziale, specialmente dei giovani, controprova del desiderio di un oltre, di un magari disperato desiderio di bene.

Perché esso diventi speranza, attesa o verifica di una promessa, occorre un’educazione del senso religioso; parimenti occorre che quello stesso Gesù delle parole e della testimonianza del papa sia incontrabile in una realtà di persone unite perché lo riconoscono presente, capaci di creare coraggiosamente, là dove sono, un “microclima” (copyright sempre Giussani) nuovo.

Servisse per questo un coraggio da Leone… non ci sarebbe problema.

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