Per Cézanne la pittura è un esercizio per addentrarsi nel mistero del reale. Un po' come la preghiera. La Francia gli ha dedicato questo 2025
Ci sono grandi artisti che è bene celebrare senza aspettare anniversari speciali. Paul Cézanne è senza nessun dubbio uno di questi. A lui la Francia ha dedicato questo 2025 con una serie di mostre e tante altre iniziative che hanno come epicentro la città dove l’artista è nato e dove è anche morto, Aix en Provence: scelta un po’ obbligatoria vista la diffidenza che Cézanne aveva sempre nutrito nei confronti di Parigi, la città dove, quando era chiamato a viverci, generalmente se ne stava appartato, o per meglio dire, nascosto.
“Sconosciuto e famoso”, lo aveva definito Gustave Geffroy, giornalista e critico d’arte che si era sottoposto a decine di sedute per un ritratto nel 1895. Era famoso a modo suo, in quanto “influente per gli irrequieti e per gli sperimentatori in pittura”.
Per Cézanne la pittura era una vocazione e quindi non poteva convivere con la concezione di stampo borghese, mercantile e salottiera che invece andava tanto di moda a Parigi. “Eccomi dunque ripiombato nel Sud, da cui non avrei mai dovuto allontanarmi, per lanciarmi all’inseguimento chimerico dell’arte”, scriveva a Claude Monet.
In tanti, a partire proprio da Monet, erano consapevoli della sua assoluta grandezza. Ma lui si sottraeva ad ogni percorso che portasse ad un riconoscimento pubblico: quando nel 1901 Maurice Denis aveva voluto dipingere un Omaggio a Cézanne, opera iconica esposta al Musée d’Orsay, era stato costretto a rappresentare l’artista attraverso una sua Natura morta circondata da galleristi, critici e artisti, perché non sapeva che sembianze avesse il pittore.
A Parigi le opere di Cézanne erano percepite come i lavori di un “barbaro”, agli occhi della critica e dei collezionisti. “Niente appariva più sconcertante di quelle tele che univano il talento più straordinario a un’ingenuità infantile”, aveva scritto Emile Bernard, un artista che per incontrarlo si era recato sino ad Aix. “I giovani sentivano il genio, gli anziani la follia; i gelosi solo l’impotenza”.
A proposito di impotenza, era questa l’accusa che gli era stata rivolta dal suo grande amico degli anni giovanili oltre che suo concittadino, lo scrittore Émile Zola. In un romanzo, L’Oeuvre, che avrebbe causato la rottura dolorosa del loro rapporto, raccontava di un pittore che, inseguendo un qualcosa che non si può realizzare, alla fine si suicidava.
Zola non capiva e non accettava quello che per Cézanne era un dato di coscienza che si traduceva in dato di esperienza: l’arte per lui era un cammino verso una Terra promessa (parole sue). Conduce a intravvedere la Terra promessa, al patto di non presumere di poterla possedere. Per questo l’arte per Cézanne era un processo sempre aperto, in virtù di un “metodo che emerge a contatto con la natura e si sviluppa attraverso le circostanze”.
Così ogni opera è percorso e non esito. Non è un traguardo ma un passaggio che, di volta in volta, sancisce qualche progresso, a condizione di una dedizione totale e di un lavoro accanito. “Ho tantissimo lavoro da fare”, scriveva ancora poco prima di morire. “Non sarà l’arte un sacerdozio che richiede dei puri totalmente votati a lei?”, si domandava in una delle ultime lettere, inviata al suo mercante Ambroise Vollard (non è un caso che sia stato un mercante e non un critico a cogliere per primo la grandezza dell’artista di Aix).
Per Cézanne la pittura è un esercizio per addentrarsi nel grande mistero del reale; scaturisce da una pratica paziente di osservazione e di pensiero. Un qualcosa di molto vicino alla preghiera. Come ha scritto Morton Feldman, un grande compositore americano, per Cézanne, il mezzo, cioè la pittura, è diventato un ideale. Davvero merita un “pellegrinaggio” ad Aix.
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