Il bilancio economico di metà legislatura del Governo Meloni è di lettura complessa. L'Esecutivo dovrà varare una politica per le imprese
In un flusso ormai continuo di dati-pagella (dall’Istat alla Banca d’Italia, dall’Ue al Fondo monetario internazionale, non ultime le agenzie di rating, un tempo prime di diritto), il bilancio economico di metà legislatura del Governo Meloni è di lettura complessa.
La Premier ha rivendicato proprio ieri all’assemblea annuale di Confindustria il merito di aver rafforzato la “resilienza” dell’Azienda-Paese, facendone un “polo di attrattività per investimenti esteri”. La prima affermazione sembra condivisibile, la seconda meno.
Guardando ai grandi parametri, tre successi paiono difficilmente contestabili: la creazione di oltre un milione di posti di lavoro, la diminuzione del peso delle posizioni precarie (tempo determinato e part-time involontario), il crollo dello spread, con conseguente miglioramento del rating dell’Italia (appena confermato da Moody’s).
A fronte di tali successi, non si possono nascondere almeno altrettanti risultati poco soddisfacenti: l’aumento della pressione fiscale, la diminuzione della produttività, l’insufficiente recupero del potere di acquisto delle retribuzioni. Senza contare la diminuzione della produzione industriale, su cui hanno inciso le politiche europee e la recessione in Germania.
A merito del Governo (un Esecutivo politico, non tecnico) va soprattutto la disciplina finanziaria: soprattutto in tempi di bollette energetiche alte e di ciclo debole (e in tempi in cui oltre la linea rossa sono le finanze pubbliche francesi e la Germania ha cancellato in una notte le sue proverbiali ganasce costituzionali alla spesa pubblica). Il confronto con il buco-Superbonus lasciato dal Conte-2 è stridente. E Moody’s – che ha promosso il rating italiano – è la stessa che non ha avuto remore a bocciare quello Usa.
L’impegno del Governo è emerso invece come chiaramente insufficiente – almeno negli esiti – sul versante dell’Azienda-Paese. Valgono a poco i recuperi pur consistenti sul fronte dell’occupazione aggregata se molti di quei nuovi job – e dei vecchi – hanno poca qualità in termini di produttività. Il motore produttivo italiano non può avere la stessa cilindrata e le stesse prestazioni di quando l’euro non c’era ancora: vuol dire essere destinati a sconfitta sicura nell’arena della nuova competitività. La produttività non entra direttamente nei parametri di stabilità, ma è la molla intrinseca per rilanciare il Pil e quindi tenere sotto controllo il parametro del debito, il più sofferente per l’Italia.
Non ha avuto torto, ieri all’assemblea Confindustria, il Presidente Emanuele Orsini, a chiedere con insistenza “una politica industriale straordinaria”. Meloni era in sala ad ascoltarlo. Fra i suoi compiti a casa per la seconda metà della legislatura una “politica per le imprese” (cioè anche del lavoro e della scuola) è certamente fra le sue priorità. Forse “la” priorità.
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