Il richiamo che viene fatto alla partecipazione ai referendum dimentica il diritto degli elettori di potersi astenere

Partecipare ai referendum è un diritto, non un dovere. Carta (costituzionale) canta: “Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi” (art. 75). Dunque, chi è contrario a una data proposta referendaria può esprimere la sua posizione in due modi: votando no, o non andando a votare. Libertà è partecipazione, libertà è anche astensione.



Su questo non dovrebbe esserci discussione. Ci sono però omelie di politici che fanno leva su un inesistente dovere morale di votare. Costoro mi ricordano quei vecchi parroci che biasimavano dal pulpito “quelli che non vengono in chiesa”, esimendosi, s’intende, dall’andare a fornire loro ragioni adeguate per cambiare idea. Solo che i vecchi parroci lo facevano sempre e comunque, i politici omiletici lo fanno… a seconda.



Essi dimenticano non solo la Costituzione, ma anche la storia della nostra Repubblica: inviti all’astensione, o richiami alla legittimità dell’astensione, sono stati fatti – legittimamente – da politici di destra e di sinistra, e non di quarta fila. Vediamo.

1991 – Bettino Craxi, leader del Psi. Contro il referendum sulla preferenza unica di Mario Segni, suggerì agli italiani di “andare tutti al mare” il 9 giugno. Stessa posizione fu presa dalla Lega di Bossi e da alcuni democristiani. Gli andò malissimo: gli italiani votarono a valanga Sì a un quesito in realtà parecchio tecnico, con l’idea di abolire la partitocrazia, in realtà assecondando i fautori del bipolarismo, che poi si è visto.



1999 – Sergio Mattarella, Ppi, vicepremier del Governo D’Alema. Il Ppi si schierò contro il referendum che toccava il Mattarellum, la legge elettorale scritta appunto da Mattarella, invitando a votare No o ad astenersi.  Mattarella disse che su tale materia era preferibile un lavoro in Parlamento, ed esplicitamente non escludeva l’astensione: “Ogni elettore può scegliere di votare, di non votare, di votare Sì e di votare No. È una scelta di ciascuno” (L’Unità, 13/4/99, p. 22).

2003 – Piero Fassino (Ds), Sergio Cofferati (ex Cgil), Francesco Rutelli (Margherita) e Governo Berlusconi. Invitarono tutti all’astensione per bocciare un referendum sul lavoro proposto da Bertinotti (estensione dell’articolo 18 alle aziende con meno di 16 dipendenti). Un manifesto dei Democratici di sinistra (ora Pd) affermava: “Non votare un referendum inutile e sbagliato è un diritto di tutti, lavoratori e non”. Votò solo il 25%, referendum kaputt.

2011 – Silvio Berlusconi, premier, invita all’ultimo momento all’astensione su quattro referendum (acqua, nucleare, legittimo impedimento). Vota il 55% degli aventi diritto, referendum valido.

2016 – Matteo Renzi, premier e capo del Pd, invita a non votare sulle trivelle. Cita a sostegno, contro i dissidenti interni, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il quale, intervistato da la Repubblica (15 aprile) così parla: “Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto è causa di nullità, non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria”. Ipse dixit. Il M5s lo accusò di reato, pensa te. Votò il 30% e il referendum fallì.

2005 – Card. Camillo Ruini. Fuori dal mondo politico, ma non digiuni di come gira il fumo, non si possono non citare il cardinal Ruini e i vescovi italiani, all’epoca da lui presieduti, che presero posizione per l’astensione in occasione del referendum sulla legge 40 (procreazione assistita). I presuli fecero bene i conti: il referendum fallì.

Si usa distinguere tra astensione attiva e astensione passiva: la prima è quella di chi scientemente punta a far saltare il quorum, la seconda è quella di chi proprio non è interessato. I puristi del politicamente etico e corretto avvertono che a sommare le astensioni attive a quelle passive si va all’inferno. Sciocchezze. Chi propone un referendum, in democrazia, ha l’onere, lui, di convincere, mettendo in conto e rispettando la libertà di ciascuno: quindi adducendo ragioni argomentate e plausibili e possibilmente meno affidandosi a certi sedicenti o seducenti guru della comunicazione, cultori della filosofia del “chi vusa pussee la vaca l’è sua” (chi grida di più, la vacca è sua”).

C’è piuttosto da interrogarsi se il frequente, copioso ricorso a grappoli di referendum, che è stato inaugurato dai radicali a suo tempo e che è proseguito sino a oggi a uso e consumo dell’uno o dell’altro, abbia favorito o no la propensione a partecipare. La risposta è no. Lo dimostrano i numeri: i referendum che hanno raggiunto il quorum, in questo secolo, sono pochissimi.

Ora, l’istituto del referendum in sé è sacrosanto. Quando si tratta di grandi scelte che impegnano i convincimenti profondi delle coscienze o le grandi opzioni culturali e politiche, il ricorso alla diretta espressione della volontà popolare è segno e baluardo di democrazia. Allora, coerentemente, i termini dell’alternativa sono – devono essere – chiari, netti e inequivocabili. Come fu nel primo referendum, quello istituzionale, del 1946: Repubblica o Monarchia? Come fu nei primi successivi referendum abrogativi del 1974 (volete sì o no abolire la legge che consente il divorzio?) e del 1981 (volete sì o no abolire la legge che consente l’aborto?).

Poi è invalso l’uso, che per me è un malvezzo, di usare lo strumento referendario chiamando il popolo a pronunciarsi su particolari questioni complesse, in cui una forte componente di tecnicalità è tanto inevitabile quanto indecifrabile dal comune cittadino. Lo si fa non di rado per tatticismi politici configurando quella che per il cittadino votante a buon diritto può definirsi presa per i fondelli.

Chi vota in queste condizioni non di rado ha capito Roma per Toma, oppure ha deciso di compiere un atto di fede nella sua parte politica. Astenersi per far mancare il quorum a questi tipi di referendum machiavellici e azzeccagarbugliati è atto di sana e consapevole opposizione all’indigestione referendaria su materie che meriterebbero ben altro trattamento.

I luoghi precipuamente deputati, in una democrazia rappresentativa come le nostre, a trattare e deliberare su materie che, con tutta la loro complessità, interessano il bene comune, sono il Parlamento, quindi i partiti, in una dialettica auspicabilmente costruttiva (che non esclude il bipartisan); e la contrattazione, quindi i sindacati in relazione con le altre parti sociali.

Ma partiti non come macchine elettorali e sindacati non come macchine burocratiche. Bensì come luoghi che favoriscono l’elaborazione, il confronto, il concorso il più possibile allargato e dal basso. Luoghi che valorizzino o favoriscano quelle che Luciano Violante ha chiamato “comunità pensanti”.

O si va in questa direzione, o tanto varrà, sui referendum imminenti in tema di lavoro e di cittadinanza, far decidere all’intelligenza artificiale.

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