L'Associazione Il Bivacco è attiva nel carcere di Opera anche con un progetto sperimentale avviato nel 1997
«Prima mi occupavo di ragazzi disabili. Il fratello di una ragazza che seguivo – uno pieno di tatuaggi – era sempre in casa, agli arresti domiciliari. A un certo punto non l’ho più visto: era finito a Opera. Così ho deciso di andarlo a trovare. È cominciato tutto così».
Aperto nel 1987, Opera è il carcere alla periferia di Milano che oggi ospita circa 1.300 detenuti, quasi tutti con condanne definitive. È in fase di realizzazione un nuovo padiglione che aggiungerà altri 400 posti. È uno degli istituti penitenziari più importanti d’Italia, sia per la presenza di numerosi detenuti ad alta pericolosità – criminalità organizzata, condannati all’ergastolo e reclusi in regime di 41-bis -, sia per i numerosi progetti rieducativi che coinvolgono volontari, educatori, cooperative sociali e persino gruppi di disabili. Un luogo dove convivono giustizia, sofferenza, possibilità e speranza.
A raccontarmelo è Pierfelice, Presidente dell’Associazione IL BIVACCO che dal 1989 svolge, nel carcere di Milano-Opera attività di volontariato andando a trovare i detenuti circa due o tre volte alla settimana. «C’è anche chi non vuole più uscire dal carcere. Conosciamo un uomo che è dentro da più di 55 anni. Ormai la sua cella è diventata casa sua».
Dal 1997, l’associazione IL BIVACCO è promotrice di un progetto sperimentale approvato dalla Regione Lombardia: Carcere e territorio: a porte aperte, che punta a creare un collegamento concreto tra i carcerati e la società esterna. Non solo: l’associazione ha dato vita anche alla cooperativa FuoriLuoghi, che oggi emette 130 cedolini mensili – stipendi, insomma – tra educatori, detenuti, che svolgono all’interno del carcere lavori di assemblaggio elettromeccanico e all’esterno lavori di ristrutturazione edilizia, e membri della stessa cooperativa.
Il Bivacco è una delle due realtà che accolgono detenuti in permesso dal carcere di Opera e di Bollate e loro familiari. Ha come logo un labirinto stilizzato; un’immagine scelta anni fa da un gruppo di detenuti politici: il carcere, in effetti, è un labirinto da cui bisogna cercare la via d’uscita. E la via d’uscita, a volte, sono proprio i volontari, gli educatori, o chiunque si incontri che voglia condividere un “pezzo di strada” di rientro nella comunità civile.
Da quattro anni, nel mese di giugno, i detenuti accompagnati dai volontari del Bivacco trascorrono una settimana di lavori socialmente utili in Trentino, a Predazzo, insieme a un gruppo di disabili con cui collaborano. «È bello vedere detenuto e disabile che collaborano nella realizzazione di un lavoro; due persone limitate per motivi differenti», dice sorridendo Pierfelice.
Ama raccontare di questa esperienza, dove la bellezza del posto e l’integrazione con la popolazione locale rappresentano una combinazione capace di rendere migliori le persone e motivare i detenuti a continuare il percorso che li vedrà riammessi nella società. I detenuti che possono partecipare lo fanno con i cosiddetti permessi premio, autorizzati dal Magistrato di Sorveglianza: restano fuori sette, otto giorni, su un massimo di 45 all’anno. I Magistrati danno parere favorevole solo a coloro che hanno già iniziato un percorso di reinserimento sociale. «Quest’anno abbiamo piantato 2.600 alberi. Il capo dell’Agenzia foreste demaniali ci ha scritto: “Il bosco di domani vi sarà riconoscente”».
«Ci sono detenuti che hanno scritto cose bellissime, davvero commoventi, raccontando di aver incontrato persone del paese che li aspettavano, volevano conoscerli, senza nemmeno chiedere quale fosse il reato commesso. Quello è un incontro vero. Forse, poi, la tua colpa gliela dirai sottovoce, ma a quel punto non conta più: sei cambiato. E se sei cambiato, anche la società deve voltare pagina».
Il Pierfelice cita l’episodio del Vangelo del figliol prodigo dove, dice, «la società-padre aspetta il figlio disgraziato e fa festa al suo ritorno. È un disgraziato, ha sbagliato, ma la società lo riaccoglie nel momento in cui vuole riprendere un nuovo cammino».
Ma non è facile. Molta gente pensa che i carcerati siano bestie feroci; poi li conosce e dice: “sono meglio di noi”. Quando conosci una persona, ti accorgi che è come te.
Pierfelice crede nel cambiamento delle persone, che poi dovrebbe essere lo scopo della pena detentiva. «Quando uno ha fatto 15 o 20 anni di carcere, ne sono convinto – salvo eccezioni – è cambiato. Il carcere ti cambia. I rapporti con gli educatori, con i volontari: è impossibile che non ti cambino. E anche se su dieci, due o tre non cambiano, gli altri sì. Bisogna scommettere su chi ha scontato la pena, su chi ha fatto un percorso. Io sono convinto che un ex detenuto, se ha compiuto davvero un cammino, diventa un cittadino migliore della media. Ha conosciuto la sofferenza, ha capito molte cose. E alla società può restituire qualcosa».
Mi parla anche dei barconi di migranti trasportati da Lampedusa nel carcere di Opera. «Il legno verrà usato per costruire strumenti musicali nei laboratori del carcere. Metà di una barca, invece, diventerà un altare nella chiesa della comunità di Predazzo che ha aperto le sue porte ai detenuti. Stupri, sangue, morte… e poi un altare».
Tutti questi racconti fanno emergere una domanda inevitabile: in cosa consiste il cambiamento? «Il carcere ti obbliga a dipendere dagli altri, a non poter decidere nulla. «Devi fare domandine per ogni cosa. dici sempre sì, in tutto. Devastante, sì. In questa “valle oscura” il cambiamento può avvenire solo attraverso l’incontro con persone che con il loro modo di porsi e di essere ti propongono un modello diverso da quello che hai vissuto e che vivi».
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