La giustizia civile attende ancora la sua “riforma”

Manca ancora in Italia un'idea su come riformare la giustizia civile, che è poi quella che interessa di più i cittadini-elettori

La riforma della giustizia in via di approvazione finale in Parlamento focalizza essenzialmente due questioni: il ruolo dei Pm come primo attore della giustizia penale e l’organizzazione del Csm, cuore istituzionale dell’autogoverno del potere giudiziario. L’ultimo tema è di prima importanza sul piano della “democrazia reale”, ma è nettamente lontano dalla vita quotidiana dei cittadini.



Il modus operandi delle Procure è certamente meno astratto e distante, anche per le periodiche ondate mediatiche di cronaca giudiziaria sul fronte politico o su quello dei grandi affari. Ma nessuno dei due dossier è percepito dai cittadini come un’emergenza-Paese come lo è invece il funzionamento della giustizia civile. Che la riforma Nordio non tocca. E il cui “balzo in avanti” resta fra i grandi obiettivi individuati dall’Italia per il suo Pnrr, il cui orizzonte tende a coincidere con quello di un prevedibile referendum sulla riforma e con la scadenza della legislatura.



Lo “stato di diritto reale” è avvertito e misurato dal cittadino-elettore-contribuente quando deve rivolgersi all’amministrazione giudiziaria: anzitutto per una controversia di natura economico-patrimoniale sui diversi mercati (primo quello del lavoro). Ma non solo: la famiglia rimane epicentro di centinaia di migliaia di cause più personali che economiche.

La competitività di un sistema-Paese (la produttività della sua economia, ma anche il “benessere” della sua società) dipendono in ogni caso potentemente dai tempi e dai modi con cui la macchina della giustizia affronta e risolve le cause civili. Quelle pendenti – nel 2024 – erano calcolate in circa 2,8 milioni: quasi una ogni venti italiani, neonati compresi. Una stima aggregata dice che 6 milioni di italiani maggiorenni (uno ogni 12) sono stati coinvolti in una causa civile.



Un recente flash dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica resta problematico anche se con toni non del tutto pessimistici. Dal 2010 al 2024, la durata media dei processi civili conclusi in terzo grado si è ridotta da 8 anni e 2 mesi a 5 anni e 10 mesi. Nonostante il miglioramento (un impegno specifico su questo fronte va riconosciuto al Governo Renzi), i tempi restano superiori a quelli registrati nei principali Paesi europei (nel 2022 i 6 anni e 5 mesi dell’Italia  si confrontavano con i 3 anni e 8 mesi di Francia e Spagna e con 1 anno e 5 mesi in Germania).

L’obiettivo del Pnrr di ridurre del 40% la durata media entro giugno 2026 rispetto al 2019 appare dal canto suo ancora lontano: se il tasso annuo attuale di riduzione dovesse proseguire anche nel 2025 e nella prima metà del 2026, il calo complessivo si fermerebbe intorno al 25%. Il secondo obiettivo del Pnrr di ridurre del 90% entro giugno 2026 i procedimenti pendenti è invece in linea con le previsioni.

La “riforma” della giustizia civile verosimilmente non ha bisogno di disegni di legge all’ultimo comma e all’ultimo sangue parlamentare (forse ha più bisogno di investimenti finanziari e strategici). In teoria potrebbe maturare – o accelerare – in un clima win win fra forze politiche e magistratura: entrambe – in teoria – interessate ad aumentare l’efficienza e l’efficacia del servizio generato dall’amministrazione della giustizia (la cui “creazione di valore” indiretta è molto più importante di quella determinata dalla contabilità nazionale).

Il capo di un grande tribunale può legittimamente rivendicare una retribuzione annua superiore ai 240mila euro, come affermato nei giorni scorsi dalla Corte costituzionale (che ha azzerato – su istanza di un magistrato – il tetto fissato da uno dei primi decreti “riformisti” varati dal Governo Renzi). Ma i manager con quel livello di compenso – ormai da molto tempo nelle democrazie di mercato – si vincolano abitualmente a precisi obiettivi di performance. E se li rispettano non solo guadagnano di più, ma vedono aumentare anche la loro credibilità.

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