6 agosto 1945: la bomba su Hiroshima. Una tragedia che cambiò il mondo, tra storia e memoria. Perché il male non è mai necessario.

MINNEAPOLIS – 6 agosto 1945, 8:15 di mattina. Enola Gay, un Boeing B-29 dell’aviazione americana dal nome affettuosamente preso dalla mamma del pilota, sgancia la bomba atomica sulla città di Hiroshima. Tre giorni dopo, il 9 agosto, stessa sorte toccherà alla città di Nagasaki. Qualcosa mai accaduto prima.

Una devastazione senza fine: 150mila morti a Hiroshima, 70mila a Nagasaki, 40mila bambini e una piaga maligna, una ferita malvagia, un avvelenamento dell’aria, della terra, dell’acqua dalle tragiche conseguenze allora pressoché ignote. Gli “hibakusha”, i sopravvissuti, ne sono i testimoni.



Hiroshima e la sua devastazione (Foto: ANSA)

“Un male necessario per porre fine all’aggressione giapponese”, diranno gli americani, un male necessario “per risparmiare al popolo giapponese la distruzione totale dopo il rigetto dell’ultimatum di Potsdam del 26 luglio”, dichiarerà il presidente Harry S. Truman in uno statement rilasciato in quel fatidico 6 agosto. “Se non accettano ora le nostre condizioni, possono aspettarsi una pioggia di rovina dall’aria quale non si è mai vista sulla terra”.



Per porre fine alla Seconda guerra mondiale, il conflitto più sanguinoso nella storia dell’umanità.

Uno statement, quello del Presidente, che è un messaggio di vittoria non solo militare, ma scientifica. Una vittoria del “progresso” firmata United States.

Con orgoglio Truman manda a dire ai russi che l’America ha vinto la corsa al nucleare. I tedeschi ci avevano provato, i russi anche, ma gli americani ci sono arrivati prima. Hiroshima ne è la prova schiacciante. “La battaglia dei laboratori ha comportato per noi rischi fatali, così come le battaglie aeree, terrestri e marittime, e ora abbiamo vinto anche la battaglia dei laboratori, così come abbiamo vinto le altre battaglie”.



Ottant’anni fa. Cose che più o meno si studiano a scuola, cose che abbiamo sempre saputo, ma a cui in fondo noi europei non abbiamo mai prestato grande attenzione. “A hard rain’s a-gonna fall”, una dura pioggia (atomica) cadrà, cantava l’America di Dylan negli anni 60 tra la crisi di Cuba e lo spettro della Russia comunista. Da noi, in Italia, alle elementari non si facevano le prove di allarme atomico riparandoci sotto i banchi. In America sì.

Tutto lontano nel tempo e nello spazio.

Ma questa primavera sono stato a Pearl Harbor, ho visitato la base della Marina americana che il Giappone attaccò a sorpresa la mattina del 7 dicembre 1941, cogliendo tutti impreparati, affondando navi, distruggendo aerei, uccidendo oltre duemila marinai statunitensi e provocando l’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto.

E mentre ero lì nel silenzio del Memorial costruito sopra al relitto dell’USS Arizona, non ho potuto fare a meno di pensare ai conflitti che affliggono il mondo d’oggi, alla incosciente leggerezza con cui si discute di bombardamenti, vittime, profughi, all’irresponsabile superficialità con cui ogni tanto si paventa il possibile uso di armi nucleari. Non ho potuto fare a meno di pensare alla mancanza di memoria di ciò di cui l’uomo è stato ed è tuttora capace.

E questa mattina, guardando le foto di Hiroshima che il New York Times ha pubblicato, drammatiche e dolenti foto in bianco e nero, quasi fossero bruciate come la distruzione che raffigurano, ho pensato che Hiroshima e Nagasaki non sono poi così lontane dal nostro orizzonte, dalla nostra storia e dal nostro cuore, ma anche come non è per nulla lontana da noi la testimonianza di uomini che, come Takashi Nagai e chissà quanti altri di cui sappiamo poco o niente, sono stati più forti dell’atomica.

Il male non è mai necessario.

God Bless America!

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