In provincia di Latina un 14enne, Paolo, si è suicidato perché vittima di bullismo. Il ministero ha mandato gli ispettori. La diversità è un dono, sempre
Castelforte, provincia di Latina, ai piedi del Garigliano. È qui che nei primi giorni di settembre un ragazzo di quattordici anni, Paolo, è stato trovato senza vita. La procura di Cassino ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio e le indagini sono in corso: ogni dettaglio è al vaglio, ogni ricostruzione resta ancora ipotetica.
Quello che non è più un’ipotesi è il dolore che ha attraversato un paese di settemila abitanti, che ora si interroga davanti a una perdita troppo grande. Nella cucina della loro casa di pietra, i genitori Giuseppe e Simonetta stringono tra le mani la foto del figlio con il basso. Non riescono più a varcare la porta della sua stanza. Raccontano di soprannomi, di insulti, di capelli tagliati per smettere di essere deriso, di denunce presentate già alle elementari.
Raccontano di un ragazzo sensibile che cucinava, difendeva i compagni più deboli, curava i propri gesti quotidiani come rituali di dignità. Raccontano della fatica di una scuola che non lo ha capito, almeno secondo la loro esperienza, e di una fiducia che si sarebbe spezzata.
Forse tutto questo sarà confermato, forse solo in parte. A rimanere è la memoria di un volto e di una domanda che non ci lascia tranquilli.
Il bullismo non è solo un problema scolastico. È il termometro di una comunità che non sa riconoscere la diversità come dono. Paolo era diverso, e per questo si è ritrovato solo. Il volto di un ragazzo non è mai un dettaglio estetico, è la rivelazione della sua unicità. Dietro un soprannome offensivo c’è sempre un volto che non si vuole guardare. Dietro una risata di scherno c’è il rifiuto di una differenza che non si riesce a reggere.
La fede cristiana insegna che nessuno è un errore. Giussani ricordava che la vera educazione è far sperimentare a un giovane che la sua vita è buona, voluta, preziosa. Quando questo non accade, la persona si sente di troppo.
Non basta dire a un adolescente che è amato: deve sentirlo nello sguardo, deve poterlo toccare nella concretezza delle relazioni. Per questo, quando i genitori raccontano che Paolo aveva smesso di fidarsi perfino di loro, ci mostrano quanto possa essere devastante una solitudine non custodita.
Cosa resta allora? Non solo la necessità di accertare eventuali responsabilità, compito affidato agli inquirenti. Resta soprattutto una sfida educativa. Un figlio che soffre chiede di essere guardato senza paura, senza fretta di normalizzare o di correggere. Gli adulti non possono abdicare a questa responsabilità.
Ogni ragazzo ha bisogno che qualcuno regga la sua originalità senza ridurla a difetto, che gli faccia sentire che la sua differenza non è una condanna ma una possibilità. “Prendetemi il posto in prima fila”: con questa frase, scritta nella chat della classe, Paolo si è congedato dai compagni. Forse era un gesto ironico, forse una provocazione. Forse era un grido consegnato a chi resta: non dimenticatevi di me, non lasciate che la mia storia scivoli nel silenzio.
Gli inquirenti diranno la loro verità. Noi siamo chiamati a una verità diversa: quella che passa nello sguardo quotidiano sugli adolescenti che ci sono affidati. Non servono slogan né protocolli: serve una compagnia adulta che non fugga la fragilità, che non chiuda gli occhi davanti alla differenza, che testimoni a ogni ragazzo che c’è davvero un posto in prima fila riservato a lui, per sempre.
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