Ieri il neopresidente dell’Anm Cesare Parodi ha incontrato il presidente del Consiglio Meloni. Ma le posizioni sono rimaste distanti
Il confronto tra Giorgia Meloni e l’Associazione nazionale magistrati (ANM) si è concluso come tutti prevedevano, con un nulla di fatto. È stata poco più che una liturgia istituzionale del vecchio secolo probabilmente inadatta ad affrontare le sfide del nuovo millennio. A rafforzare la sensazione è anche la dinamica del confronto, avvenuto in un bellissimo tavolo a sedute contrapposte, come nella migliore tradizione delle trattative sindacali. Solo che seduti al tavolo non c’erano gli operai da una parte ed i padroni dall’altra, ma il potere politico ed il potere giudiziario. E nessuno dei due ha voluto mollare la presa.
Il governo è forte dell’idea di avere un mandato elettorale preciso su questo tema, avendo spinto per questa riforma sin dall’era Berlusconi, mentre la magistratura è certa di poter offrire il proprio contributo non nelle aule di giustizia, ma divenendo essa stessa corpo politico.
Come annunciato dal suo presidente, nelle prossime settimane assisteremo ad una profusione di iniziative virtuali e reali finalizzate all’unico obiettivo di “smuovere le coscienze”, come dicono loro, creando, secondo le loro intenzioni, un consenso nella “società civile” affinché questa riforma venga fermata, ben prima di nascere, dal dissenso del popolo.
Lo scontro non sembra animato da particolari sottigliezze strategiche o tattiche. E una sorta di combattimento tra galli in cui ognuno dei due non vuole mollare. Una zuffa fatta in pubblico con l’obiettivo di farsi vedere piuttosto che di trovare una soluzione.
Infatti, vi fosse una strategia, vi sarebbero degli obiettivi da raggiungere, ma la contrapposizione tra il cambiamento radicale delle norme che regolano il funzionamento della magistratura da una parte e la conservazione dello status quo dall’altra non appare conciliabile. Un conflitto che non si può risolvere senza che una delle due parti non perisca.
Come insegnano i grandi strateghi, chi vince la battaglia è chi sceglie il terreno su cui giocarla e pare evidente che in questo caso la magistratura si sia posta come obiettivo quello di diventare corpo politico e presentare le proprie ragioni come un qualunque partito. In sostanza, accetta di giocare la partita sul terreno più consono a chi è allenato a questi scenari e conosce metodi e trucchi piuttosto che cavilli e commi di codici.
Perciò è facile prevedere che la politicizzazione dello scontro e la ricerca di sponde all’interno del corpo elettorale si tradurrà in una sconfitta sonora per il corpo della magistratura, che si ritroverà ad essere doppiamente in difficoltà. Perderà il proprio ruolo sacrale di istituzione votata all’applicazione delle norme e risulterà parte politica sconfitta in una battaglia nella quale oggi il consenso per i giudici è nettamente inferiore a quello dei decenni precedenti.
Da questa sconfitta la magistratura risulterà ridotta e limitata e verrà giudicata – questa classe dirigente delle associazioni dei magistrati – per la propria incapacità di leggere il momento storico e per non aver voluto aprire un dialogo con gli altri poteri dello Stato in maniera formale e istituzionale, avendo invece scelto una via del tutto anomala e probabilmente incoerente con il proprio ruolo. Agevolerà così gli obiettivi che i moderni partiti politici hanno, ovvero la riduzione del peso e dei poteri delle istituzioni indipendenti che perdono il proprio ruolo e la propria funzione proprio quando si fanno esse stesse parti in causa.
Nella loro voglia di essere protagonisti di una battaglia politica, ponendosi come attori e combattenti non fanno altro che dare sempre più argomenti alla politica che li vorrebbe invece estranei, terzi ed indipendenti.
Ma questi ragionamenti non appartengono a chi governa oggi i magistrati. Anzi, più il conflitto diventa aspro, più sembrano realizzarsi i sogni di alcuni che vorrebbero una repubblica dei giudici come obiettivo finale, ma che in realtà non stanno facendo altro che lasciare ai loro posteri una Repubblica più indebolita per l’incapacità dei suoi poteri di rimanere nell’alveo per cui la Costituzione li ha inventati.
Sarebbe il caso di lanciare un appello a tutti i magistrati, affinché si siedano con spirito di buona volontà al tavolo e presentino delle proposte che possano addirittura superare quelle del governo per rendere maggiormente efficace e ancor più indipendente l’esercizio di poteri giudicanti e requirenti, piuttosto che difendere una ormai inattuale geometria dei poteri, profondamente viziata dai tanti scandali di cui la magistratura è stata protagonista negli ultimi anni e dalla profonda insoddisfazione dei cittadini per il servizio-giustizia che viene erogato.
Per dirla con chiarezza, servirebbe uno stratega in grado di guidare questo potere verso una strada di amplificazione della sua terzietà ed indipendenza attraverso un nuovo assetto organizzativo, piuttosto che difendere quello che a molti pare indifendibile. Ma si sa, questi sono tempi in cui ognuno si sente in grado di poter recitare il ruolo dell’altro.
Anche il più preparato dei magistrati, però, non sarà mai pronto a fare politica come l’ultimo dei consiglieri comunali, per il banale motivo che entrambi fanno un percorso e un lavoro diverso e hanno sensibilità e competenze diverse.
Il prezzo di questo errore lo pagheremo tutti e questo periodo sarà probabilmente ricordato come quello in cui si è definitivamente persa la tradizione delle grandi repubbliche occidentali, che proprio sulla separazione netta dei poteri e degli ambiti di azione hanno fondato la loro stessa esistenza.
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