Ancora pochi giorni e la riforma delle carriere dei magistrati vedrà la luce. La divisione tra magistrati inquirenti e giudicanti è una delle riforme più discusse dal 1992, quando si prese atto che il passaggio dal sistema inquisitorio a quello accusatorio aveva diviso la vita e la prospettiva dei magistrati. Solo che a nessuno è mai interessato davvero mettere mano al “sistema penale” in modo che fosse più equo, o proporne un assetto più efficace. Tutti, ma tutti, hanno giocato questa partita con l’intento di mettere a regime l’idea pura.
I magistrati, ovvero una parte di essi, hanno da sempre sostenuto che il Pm altro non è che l’incarnazione stessa del potere inquisitorio gestito secondo la Costituzione. Mentre la politica, o parte di essa, ritiene i Pm poco più che funzionari statali che devono perciò rendere conto del loro operato. E nonostante la delicatezza di questo ruolo, pochi hanno provato a ragionarne senza pregiudizio e senza volerne ricavare un tornaconto.
Perché è vero che un Pm non può non avere più garanzie e tutele di un altro funzionario pubblico ed essere indipendente. Ma spesso l’“indipendenza” ha funzionato da paravento ad una sostanziale, impunita anarchia investigativa che è costata al Paese denari, agli indagati innocenti dolore, alla comunità nazionale anni di blocchi e di guerre tra pm e politica. Soprattutto, la funzione inquirente è stata esercitata in troppe occasioni senza saggezza e senza cautela, con una parte di magistrati convinti di poter indagare il mondo per dimostrare le loro idee, piuttosto che reprimere reati.
Questa dicotomia va risolta e la divisione delle carriere appare un buon inizio. Lo è per tutti i garantisti e per chi crede che la severità di un inquirente debba essere bilanciata dalla più assoluta distinzione da chi giudica. Costruendo anche percorsi che siano il più possibile chiari e distinti anche nelle carriere.
A questo si oppone con tutte le sue forze l’Anm, che continua il suo ruolo di custode di una tradizione a cui guarda con orgoglio. Dimentica forse i troppi casi di pubblici ministeri destituiti per gravi condotte, i troppi innocenti messi nel tritacarne giudiziario senza riscatto, le troppe faide interne alla magistratura stessa che non si sono affatto sopite molto dopo i fatti di Palamara. Sostenere che il sistema attuale sia praticamente perfetto, come l’associazione ribadisce quasi in ogni sua uscita, è un gesto di grande arroganza. Non volere in nessun senso contribuire ad un ragionamento tecnico sulle ipotesi di riforma e non dare nessun tipo di supporto ad una visione prospettica del ruolo della giustizia penale nel nostro sistema sociale è una grave abdicazione ad un ruolo di guida tecnica e riflessione che la stessa associazione dovrebbe avere. Ha scelto di fungere da sindacato dei pubblici ministeri, o di alcuni tra loro, annunciando che nell’ipotesi in cui ci fosse un referendum costituzionale si esporrebbe in maniera massiva per ottenere un esito di rigetto da parte del corpo elettorale. In pratica si pone come soggetto politico autoreferenziale in contrapposizione al Parlamento quale organo eletto dal popolo, riservandosi una funzione di imbuto di tutte quelle forze che cavalcheranno le sue posizioni nella speranza di essere in qualche modo più vicine ai pubblici ministeri stessi, o a chi rappresenta.
È un attivismo collettivo semplicemente inopportuno, tenuto conto che l’espressione di ogni magistrato in quanto cittadino è del tutto incomprimibile, ma allo stesso tempo la rappresentanza collettiva del corpo della magistratura non può porsi come “soggetto politico”. Dovrebbe avere estrema cautela ad esprimersi non in maniera così ampiamente ostile al Parlamento.
Sembra quasi che i magistrati che si riconoscono nell’Anm vogliano, cerchino e sperino in un confronto definitivo con la politica da cui uscire vincitori e stabilire la propria supremazia all’interno del corpo sociale, per poter continuare a svolgere in assoluta anarchica autonomia il ruolo di elitario controllore della politica e della società senza dover rendere conto a nessuno. La differenza dagli anni precedenti è che la politica si sente più forte e lo è perché non ha più la vicenda personale più grave degli ultimi decenni, ovvero quella di Silvio Berlusconi. Non è un caso che lui sia evocato da chi vuole approvare la riforma così come da chi vuole osteggiarla.
Il problema è che la società che ci apprestiamo a conoscere nei prossimi anni sarà profondamente diversa da quella che Berlusconi ha lasciato solo qualche mese fa. La percezione che possa resistere un luogo in cui un potere come quello della magistratura inquirente si esercita senza controlli, senza limiti, senza dover rendere conto a nessuno, è qualcosa di intollerabile. I politici in generale hanno sperimentato per primi quanto il peso della maggioranza dei cittadini abbia compresso le loro prerogative. Ne hanno preso atto ed oggi sono in una condizione di sicuro privilegio rispetto alla maggioranza di chi la mattina va al lavoro, ma certamente di minor prestigio economico ed elitario di chi li ha preceduti. I magistrati invece hanno lo stesso assetto di tutele che avevano cinquant’anni fa, pur avendo perso l’atteggiamento quasi sacerdotale dei loro predecessori che guardavano all’impegno diretto e politico, o all’uso politico della magistratura in maniera esplicita, come ad una specie di sommo peccato a cui non prestarsi mai. Sono arrivati poi i Pm militanti, le correnti di area politica esplicita all’interno della magistratura, i presunti eredi dei martiri dell’antimafia, i moralizzatori o globalizzatori di destra e di sinistra che hanno anche apertamente utilizzato i loro poteri per poi ritrovarsi esposti immediatamente e successivamente impegnati politicamente.
È probabile che la magistratura abbia sottovalutato quanto il popolo sia disinteressato alle sue dinamiche interne e quanto invece voglia avere un servizio della giustizia più efficace ed indipendente ed un atteggiamento di maggior rispetto verso chi viene indagato, soprattutto una maggiore responsabilità nei percorsi di carriera che premino chi fa bene, ma allo stesso tempo evitino che chi fa male resti allo stesso posto, magari semplicemente cambiando le proprie funzioni.
Questo scontro sarà definitivo e probabilmente risolverà per i prossimi anni la lotta tra politica e magistratura. Non è un caso che la Meloni abbia deciso di puntare su questa riforma costituzionale molto di più che su quella del premierato, forse perché sa che oggi su questo tema ha maggior consenso e ritiene allo stesso tempo di poter dare un definitivo segnale a quelli che si considerano poteri forti. Sembra, per dirla chiaramente, che la maggioranza abbia tratto in trappola la magistratura e che ora voglia sfidarla sul tema del consenso in un momento in cui la maggioranza moderata degli italiani sta crescendo nel dare fiducia all’attuale governo.
Meglio sarebbe stata un’interlocuzione tecnica e di contenuto per poter dare un assetto nuovo ed efficace, piuttosto che questa guerra di contrapposizioni a cui nessuno pare volersi sottrarre. Perché se è vero che non si può chiedere al primo che passa di poter svolgere le funzioni inquirenti nella magistratura italiana, allo stesso tempo sfidare chi fa politica da decenni sul terreno del consenso può essere la peggiore di tutte le scelte per i magistrati. Pare invece che ambiscano a diventare più espressioni del popolo che custodi di una competenza tecnica e del principio di legalità. Le uniche cose che dovrebbero essere le loro vere preoccupazioni, le loro uniche vere competenze.
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