Nella sua “Deposizione” Tintoretto rappresenta il culmine della Passione che prelude alla salvezza. Al Museo Diocesano di Milano fino al 25 maggio

Jacopo Robusti (1518-1594), a tutti noto come il Tintoretto, non è certo il primo artista a misurarsi con un tema così impegnativo come quello della Deposizione. Di frequente esplorato nel corso dei secoli, il soggetto sacro ha costretto pittori e scultori ad immaginare l’evento non potendosi in alcun modo rifare alle narrazioni evangeliche: per descrivere il rito pietoso della sepoltura di Cristo, i Sinottici, come pure il vangelo di Giovanni, si limitano infatti a poche note sommarie senza entrare quasi mai nei dettagli. È in questi “appunti di memoria” che dunque si cela tutta la potenza salvifica di quell’Avvenimento destinato a dare piena attuazione al sacrificio redentivo.



Ci troviamo nella seconda metà del Cinquecento; sono trascorsi pochi anni da quando il Rosso Fiorentino – uno dei principali esponenti di quella che Roberto Longhi ebbe a definire la Maniera italiana – si era cimentato in una Deposizione (1521, Volterra, Pinacoteca e museo civico) di ben altra fattura rispetto a quella che il Tintoretto realizzò a Venezia (1562) per la chiesa di Santa Maria dell’Umiltà alle Zattere (chiesa soppressa e successivamente distrutta) e ora ospitata presso le Gallerie dell’Accademia.



Se gli artisti solitamente utilizzano la croce per verticalizzare il soggetto delimitando così, grazie all’asse portante e ai due bracci trasversali, gli spazi assegnati ai singoli personaggi, nella tela maestosa di questa Deposizione il Robusti fa posto alla mestizia di un vero e proprio Compianto: sceglie perciò di eliminare la croce e di collocare i protagonisti a una distanza ravvicinata, offrendoci un fermo immagine suggestivo e teatrale. Il pathos che vibra nei volti favorisce una singolare partecipazione emotiva alimentata dalla postura e dalla gestualità di ciascuno.

Giuseppe di Arimatea – si suppone appartenga a lui la figura di sinistra – sostiene il corpo di Gesù con tutto il peso del suo inerte abbandono, ma al tempo stesso si lascia catturare dall’espressione accorata e commossa della Maddalena. Rimane impressa anche in noi l’immagine di questo volto, la cui luce interiore diffonde all’intorno il palpito di una pressante, rinnovata supplica; rivive nell’atteggiamento – le braccia dispiegate in un ideale abbraccio al suo Signore – la memoria antica del “primo amore”; si prolunga in un dialogo muto l’intimità di un rapporto che il Tintoretto evidenzia adombrando il volto di Cristo con la solida corporeità di questa donna che a ragione riconosciamo come preferita fin dall’origine.



L’intreccio doloroso e silente dei personaggi raggiunge il suo apice nella figura della Vergine: la Madonna, priva di sensi, abbandona il capo all’amorosa pietà di una pia donna – forse Maria di Cleofa – che la ricovera nel calore ospitale del suo grembo.

Colpisce la specularità delle figure: la Madre e il Figlio stabiliscono insieme un equilibrato contrappeso tanto da conferire all’opera un’armonia composta e priva di forzature. Commuove il gioco degli sguardi intensi e penetranti che, insieme all’incalzare dei gesti, trascina lo spettatore in una sorta di sacra rappresentazione.

Ben si addice il riferimento al Laudario di Cortona utilizzato nel suo contributo Deposizione e speranza. La Passione secondo Tintoretto da Nadia Righi, direttrice del Museo diocesano di Milano presso cui si trova l’opera fino al prossimo 25 maggio (cfr. Attorno a Tintoretto. La Deposizione, a cura di Nadia Righi, Giuseppe Frangi, Giulio Manieri Elia, Dario Cimorelli editore, 2025). La Righi menziona Maria nel suo appellarsi al popolo dei fedeli con la richiesta umile e tuttavia perentoria di soffermarsi sul suo dolore per imparare finalmente a guardare l’umano sacrificio del Figlio:

“Voi ch’amate lo Criatore / Ponete mente a lo meo dolore / Ch’io son Maria, co lo cor tristo / La quale avea per figliuol Cristo / La speme mia è dolce acquisto / Fue crocifisso per li peccatori”.

Risuona all’orecchio di molti fra noi la melodia delicata e struggente di queste note che accompagnano ancora, almeno nel cuore, i passi cadenzati di certe Viae Crucis.

Ci ricorda, il Tintoretto, con la sua Deposizione, di mantenere aperta quella ferita che sola consente di ”non perdere la vita vivendo”. Anche a questo intende contribuire il cammino quaresimale verso la Pasqua di risurrezione.

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