Raccontava Alberto Giacometti che quando da giovane andava al Louvre davanti alle sculture e ai dipinti sperimentava la dimensione del sublime. “Le amavo perché mi restituivano qualcosa che non trovavo nella realtà. Le trovavo non solo belle, ma più belle della realtà stessa”. Con il passare degli anni però la sua prospettiva era cambiata. “Oggi se vado al Louvre”, raccontava sempre Giacometti nei suoi Ecrits, “non riesco a resistere dal guardare le persone che guardano i quadri. Il sublime per me, oggi, è più nei volti che nei quadri”.
I volti: per gran parte della sua vita Giacometti ha indagato sul grande mistero che si spalanca dietro il volto di una persona. Quando si era staccato dal surrealismo spiegando che voleva orientare tutta la sua ricerca sui volti, era stato quasi irriso da André Breton. “Tutti sanno cos’è un volto umano” aveva detto Breton. Lui aveva ribattuto seccamente dicendo che invece lui non lo sapeva e per questo voleva dedicarvisi.
Cosa cercava Giacometti nei volti che disegnava o dipingeva, con quell’essenzialità e profondità che hanno reso le sue opere quasi delle icone a noi contemporanee? Forse una risposta può essere trovata in un pensiero di don Giussani. “È vertiginoso essere costretti ad aderire a qualcosa che non si arriva a conoscere, che non si riesce ad afferrare. È come se ogni mio essere fosse sospeso a qualcuno che mi sta alle spalle e il cui viso mai io potessi vedere”, si legge nel libro Una strana compagnia. Giacometti era proprio in quella situazione: sperimentava ad ogni passo la vertigine di una presenza che avvertiva dietro ognuno di quei volti, ma che non conosceva perché non gli si palesava.
Per questo la sua è stata un ricerca senza fine. E proprio “Une quête sans fin. Giacometti au travail” è il titolo di una mostra che mette in relazione le immagini e le frasi del grande artista svizzero con alcune intuizioni di don Giussani. La mostra infatti è proposta all’interno delle iniziative del centenario di Giussani al College Champittet-Pully di Losanna (sabato 19 e domenica 20 novembre).
“Ci sono due ragioni per cui abbiamo scelto ‘una ricerca infinita’ come titolo di questa mostra” spiegano nell’introduzione al percorso i giovani curatori. “La prima concerne la sensazione di non poter mai afferrare la realtà nella sua interezza, sensazione che si prova leggendo la frase di Giacometti. La frase di Giacometti, invece di provocare sgomento per questa coscienza dei limiti, ci suggerisce la speranza che la realtà sia lì per comunicarci qualcosa di sempre più grande dei nostri progetti e delle nostre immagini precostituite. Il secondo motivo è la metodologia che ne deriva. Per capire meglio la realtà, ovvero per arrivare al ‘cuore della vita’, dobbiamo metterci al lavoro”.
Esattamente come Giacometti, che ostinatamente, ogni giorno, nel suo studio parigino, un “antro urbano” scaldato alle bell’e meglio da una stufa e privo anche di servizi, si metteva alla ricerca non di un volto, ma “del” volto. La sfilata di immagini posta sul tavolo centrale non solo restituisce l’assiduità e la profondità di questa sua ricerca, ma suona come una conferma: i suoi non sono più semplici ritratti, ma sguardi tutti tesi verso un oltre. Sguardi muti, ma visibilmente definiti da ciò che attendono.
“Un giorno, volendo disegnare una ragazza” – sono parole di Giacometti inserite nel percorso della mostra – “all’improvviso ho notato che l’unica cosa che restava viva in lei era lo sguardo. Il resto della testa si trasformava in un cranio, diventava quasi l’equivalente del cranio di un morto. Quel che costituiva la differenza tra un morto e la persona viva era lo sguardo”.
Sono sguardi svuotati da ogni psicologismo, perché pieni di una domanda. Una domanda nuda, essenziale, così radicale da apparire quasi bloccata, che invece trova nelle parole e nell’esperienza umana di don Giussani un’accoglienza e un’imprevista, disinteressata compagnia.
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