A Mamiano di Traversetolo la mostra “Flora” raccoglie in un vivaio d’arte “L’incanto dei fiori nell’arte italiana dal Novecento a oggi”. Fino al 29/6
Fragile bellezza, inermità estrema ma espressività potente, per fare un quadro ci vuole un fiore. Giorgio Morandi usava reciderli quasi senza gambo, per risparmiare quanta più natura possibile; poi li metteva in posa per ritrarli e spesso ne faceva omaggio a signore, ancora profumati di vernice. Filippo de Pisis li adorava e li dipingeva con trasporto: “L’anima dei fiori vola via e penso con leggero spasimo al mistero che governa la vita e la bellezza”.
In questo maggio, ma sino a tutto giugno, la Villa dei Capolavori a Mamiano di Traversetolo, nella campagna parmense, la splendida sede della Fondazione Magnani Rocca, è trasfigurata in un vivaio d’arte dedicato ai fiori dipinti da artisti italiani dal Novecento a oggi: è la mostra Flora, curata da Daniela Ferrari e Stefano Roffi.
Hai voglia a ripetere che una rosa è una rosa è una rosa: gli occhi che la guardano e le mani che la pennellano non sono mai le stesse e finisce così che le rose slavate dell’acquerello di Giovanni Boldini siano alquanto diverse da quelle bianche, nitide in vaso blu, di Cagnaccio di san Pietro e da quelle variopinte dedicate a Maria Vergine da Achille Funi.
Oppure ancora – questa sezione della mostra è un autentico roseto – quelle pallide e assorte di Morandi, quasi affogate in un vaso che s’affaccia timidamente all’essere come le sue bottiglie, e le rose morandiane replicate tridimensionalmente in ceramica dal ben noto virtuosismo plastico di Bertozzi&Casoni.
Ok per i simbolisti che petalosi sono d’ordinanza – e dunque le due eteree cascate di fiori de La vita e de L’amore di Galileo Chini sono passioni dichiarate, sono di casa –, ma che dire dei futuristi che volevano sopprimere per eccesso di romanticismo il chiaro di luna e poi si sdilinquiscono, sia pur a modo loro, per le creature floreali? Soprattutto Giacomo Balla coi suoi Balfiori, il suo ligneo Fiore futurista, la sua verdastra Espansione di primavera, e poi Fortunato Depero, con le sue opere graficizzanti e scenografiche, di ammirabile inventiva formale e coloristica.
Il fatto è che il fiore costituisce un microcosmo di grazia che il macrocosmo, l’universo, con la sua magniloquente immensità, non possiede, e dunque con le sue infinite varietà, le sue innumerabili cromie e sfumature, le molteplici fogge, le simboliche risonanze, la variabile ma tendenziale caducità assomma in sé l’imprevedibile e fugace bellezza della vita, l’assortimento vivace del genere umano ma anche la sbrigliata, tenera e perfetta fantasia del Creatore.
E pure in chi preferisce paganeggiare suscita devozione: Narciso, Giacinto, Clizia, non sono tutti miti – cantati da Ovidio nelle Metamorfosi – di trasformazioni floreali post mortem? E l’annuale ritorno delle fioriture dopo l’appassimento e la morte non è forse l’eterno ruotare del ciclo dell’essere?
“L’arte è lo sforzo incessante di competere con la bellezza dei fiori e non riuscirci mai”, parola dello spirituale Marc Chagall. Di questa perenne attitudine allegorica dell’ars florensis manifesto insuperato resta però il secentesco lussureggiante quadro di Jan Brueghel il Vecchio, Vaso di fiori (1608), commissionatogli dal cardinal Federigo Borromeo e conservato alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana a Milano; più di cento specie di fiori dipinte con nitore fiammingo, un tripudio di forme e di colori che incantò il manzoniano cardinale: è l’umanità riccamente assortita che si abbevera nel contenitore alla stessa acqua.
Ma neanche lo scettico e crudo Novecento ha saputo rinunciare alla malìa floreale, ed ecco così in esposizione le Dalie di Previati, i Crisantemi di de Chirico, le Rose di Carrà e le Ortensie di Segantini, i Garofani di Mafai e i Fiori di Donghi, un avvolgente bouquet di profumate corolle schiudenti su una dimensione contemplativa e raggiante.
E mentre la danzante primavera incede ormai verso l’assertiva estate, è idea salutifera per il corpo e per lo spirito fare un salto a Mamiano, dove il piacere di una passeggiata nel frondoso Parco romantico abitato dagli sgargianti pavoni si associa al gaudio del “giardino” espositivo, sì esteriore perché visibile agli occhi, ma insieme intimo perché va da cuore a cuore, immaginando d’essere un’ape soffermantesi di tela in tela, di fiore in fiore, a suggere il creativo nettare dell’anima.
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