Nel bicentenario della nascita Livorno celebra la grandezza del suo figlio illustre, maestro dell’800 italiano e protagonista del rinnovamento della pittura
È un’esperienza affascinante quella offerta, nella bella sede restaurata di Villa Mimbelli, dalla mostra Giovanni Fattori. Una rivoluzione in pittura, organizzata dal Comune di Livorno e aperta fino all’11 gennaio. In quello che in effetti è il Museo Civico “Giovanni Fattori” sono esposte dal 6 settembre scorso, giorno esatto della nascita 200 anni fa del geniale maestro macchiaiolo, più di 200 sue opere.
Cavalli magnifici in tutte le pose, marine quiete e luccicanti, campi coltivati o arbusti selvaggi, umili contadine e soldati piegati dalla fatica, poderosi buoi maremmani avvolti dalla luce del sole o sotto le nuvole chiare della Toscana, catturano il visitatore.
Il percorso ci fa ammirare la visione originale e profondamente umana della natura, della vita sociale e militare dall’artista, lontano dalle mode del tempo e aperta al mistero e alla poesia della realtà. Fattori non imita alcuno stile e, pur accogliendo gli insegnamenti della pittura italiana e i fondamenti del disegno, sceglie una strada personale sempre riconoscibile, anche perché i suoi personaggi, mandriani, pastori, boscaioli, non sono mai idealizzati ma lasciano trasparire la sua adesione empatica alle evidenti sofferenze del popolo a cui sente di appartenere.
Fattori voleva restituire, come lui stesso dichiarava, “la realtà della vera impressione del vero”. E proprio per questo scopo, come scrive Vincenzo Farinella, il curatore della mostra, sceglie di “mettere in crisi lo spazio prospettico e i rapporti proporzionali tra le figure”.
Nell’arco della sua lunga vita il maestro toscano (Livorno 1825 – Firenze 1908) fu costantemente orgoglioso di avere nelle vene “sempre il sangue livornese strafottente”, che nella sua giovinezza di studente svogliato e inconcludente gli valse un giudizio severo dei suoi insegnanti: “clamoroso, prepotente e maleducato”.
Ma il tratto chiassoso e arrogante del carattere non gli impedì di diventare “il pittore e incisore più significativo del secondo Ottocento italiano”, come lo definisce Farinella, riconoscendo anche la portata europea del suo talento.
Occorre dunque superare l’immagine stereotipata del pittore agreste, seppur con accenti di innegabile autenticità, che vanno ben aldilà di una pittura da cartolina souvenir delle campagne toscane, per cogliere piuttosto la sua originalità in rapporto agli artisti impressionisti d’Oltralpe come Manet, Degas e Cézanne, soprattutto per il suo sperimentalismo nella costruzione spaziale.
Le sei sezioni della mostra ricostruiscono il percorso artistico di Fattori. Il visitatore è accolto da un Autoritratto in età matura, che svela la profondità quasi sconcertata di un artista capace di farsi sorprendere dalla realtà, malgrado i suoi inizi siano quasi imbarazzanti, come si evince dal simpatico Ex voto (per una caduta da cavallo) dipinto a poco più di vent’anni e proveniente dal vicino santuario di Santa Maria delle Grazie di Montenero, dov’è sepolto l’artista: sembra infatti più un fumetto che un’opera capace di preannunciare la grandezza del pittore.
L’anno di svolta è il 1859, quando arrivano i soldati francesi in Toscana, suscitando l’entusiasmo di Fattori. Si sviluppa così la ricerca sulla “macchia” come chiave pittorica, insieme con l’innovativa capacità di sintesi compositiva e resa luministica e spaziale.
Così negli anni Sessanta si dedica alle battaglie risorgimentali, dipingendo per esempio Una carica di cavalleria a Montebello, in cui però – al di là di ogni intento celebrativo – la congestione della battaglia travolge vincitori e vinti, toccati da uno sguardo di dolore per le vittime di ambo le parti. Sono in realtà le retrovie a interessarlo, dove i soldati leggono le lettere da casa o si riposano sfiniti. I momenti più prosaici della vita militare catturano la sua attenzione, con un’implicita condanna della crudeltà delle guerre.
Nello stesso periodo, dopo la morte della moglie, invitato nella tenuta di Castiglioncello dal critico Diego Martelli, immersa nella natura incontaminata, si dedica a dipinti di rara bellezza come La punta del Romito, una luminosa marina che ritrae la costa livornese, da ammirare ancor oggi per la sua immutata dolcezza colorata, o la campagna con Bovi al carro, così umili e insieme maestosi nel loro biancore, che contrasta col rosso del carro e il blu del mare sullo sfondo.
Negli anni Settanta e Ottanta l’artista prosegue la pittura militare e di natura, ignorando le novità delle tecniche impressioniste, che negavano l’importanza del disegno, rivendicata invece da Fattori, sempre attento alla consistenza oggettiva delle forme.
Non condivide affatto neppure l’interpretazione idilliaca della vita agreste dei suoi amici naturalisti: La strada bianca o Abbeveraggio mostrano un mondo nobile ma rude, che si riflette nelle movenze sgraziate dei personaggi e sui volti segnati e carichi di sofferenza come l’impressionante Ritratto di buttero dallo sguardo tagliente o il Ritratto di contadina, una donna quasi inespressiva.
La Maremma resta per il pittore ormai anziano il sogno di un mondo primitivo, amato per la bellezza assoluta di quelle terre selvagge e gli animali indomiti coi loro movimenti bruschi, ben rappresentati nella tela La mena in Maremma, una composizione originalissima.
Nell’ultimo decennio della sua esistenza, mentre l’allievo Plinio Nomellini proponeva con enfasi retorica il suo Garibaldi, un Fattori ormai disilluso osa contestare apertamente la storia del nostro Risorgimento con il dipinto Hurràh ai valorosi, in cui i protagonisti sono i soldati della Terza guerra d’indipendenza che rientrano dal campo di battaglia sconfitti, delusi e feriti, e hanno sul volto i segni amari dell’insuccesso.
Anche in questa scelta finale il pittore livornese ci appare come uomo profondamente appassionato alla verità e capace mirabilmente di rappresentarla.
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