Tra il 1920 e il '45 diversi artisti si sono opposti all’estetica del fascismo: li celebra una mostra sull’espressionismo a Vercelli. Fino all'11 gennaio 26
Guttuso, De Pisis, Fontana, Birolli, Pirandello, Sassu e altri contemporanei: un numero limitato ma significativo di opere appartenenti alla Collezione Giuseppe Iannaccone – alcune delle quali mai esposte prima al pubblico – ci raccontano, nell’esposizione L’Espressionismo Italiano, aperta fino all’11 gennaio 2026 a Vercelli nell’Ex Chiesa di San Marco, un periodo straordinario della storia dell’arte italiana.
Straordinario perché nel ventennio del regime fascista, che imponeva rigidi modelli celebrativi, sull’onda del “ritorno all’ordine” del classicismo, pittori indipendenti come quelli in mostra hanno voluto con determinazione sottrarsi alle imposizioni culturali dominanti, per esprimere i loro turbamenti, le loro angosce, la fragilità dell’uomo, la sua solitudine sofferta in un periodo lacerato da conflitti.
“Ho sempre sentito il bisogno di incontrare artisti capaci di restituire all’immagine l’essenza profonda dell’essere umano: il suo smarrimento, la sua resistenza, le sue domande”, dichiara con lucida consapevolezza e sincerità l’avvocato Giuseppe Iannaccone, collezionista illuminato e appassionato, che ha condiviso parte del suo prezioso patrimonio in questa affascinante esposizione.
Spiega inoltre quali sono state sempre le linee guida delle sue scelte nell’acquisizione dei dipinti, per costituire una raccolta privata che oggi è la più importante in Europa. “L’opera, per me, è autentica quando nasce dalla necessità di esprimere e non dal desiderio di compiacere. Per questo ho scelto di raccogliere le opere di quegli artisti italiani che, tra le due guerre, si sono posti fuori dal coro”. E in effetti nei quadri esposti i pittori hanno dipinto l’inquietudine, il dolore e il dissenso, non la forza e il successo.
In realtà parlare genericamente di espressionismo, a proposito della mostra di Vercelli, per quanto riguarda l’arte italiana dagli anni Venti ai Quaranta, non è propriamente calzante. L’arte italiana di quel periodo, infatti, è ben lontana dalle deformazioni dell’espressionismo tedesco, dalla Brücke alla Nuova Oggettività, così come dai colori stravolti dei Fauves francesi.
Per la pittura italiana di questa stagione si tratta piuttosto del superamento delle regole accademiche di anatomia e di prospettiva, in nome di una spontaneità che si manifesta in un espressionismo lirico o in uno stile realistico, come nel caso di Guttuso. Ma in sostanza ciò che ci colpisce contemplando le opere, ben valorizzate in una sede suggestiva, è proprio la capacità di rappresentare “un Paese fragile, in chiaroscuro, attraversato da tensioni interiori, da disagi sociali, da contraddizioni mai pacificate”. Un Paese tormentato come in fondo lo è anche l’Italia di oggi, lacerato da nuovi conflitti che minano la convivenza pacifica tanto desiderata.

Il percorso espositivo si snoda per nuclei tematici. Innanzitutto “Il colore come resistenza” in cui è evidente che il colore non può ridursi a ornamento ma è piuttosto verità emotiva, che quindi reinventa la realtà. Ne sono un magnifico esempio le opere di Renato Birolli, come L’Arlecchino che qui, da servitore furbo e ingannatore, come noi lo conosciamo, si trasforma in ragazzo intimidito e impacciato, con in mano un mazzo di fiori più grande di lui, che sembra incapace di consegnare.
Oppure la Siesta rustica di Fausto Pirandello, una siesta niente affatto serena e riposante, dove si annida invece una sottile inquietudine nelle due figure femminili, per lo scorcio riavvicinato che quasi le comprime. Anche la seconda sezione “Al di là del ritratto” ci ricorda la fragilità dell’uomo, attraverso volti che cercano di restituirci identità sfuggenti o in crisi. Il nudo di Lucio Fontana ne è un esempio, una fanciulla in gesso colorato, oro e rosso che non ha certo l’orgogliosa sicurezza di una Venere; e l’intenso dipinto di Guttuso Ritratto di Antonino Santangelo, il critico dell’arte allora direttore del Museo nazionale di Palazzo Venezia, ci cattura per quel volto assorto, la postura raccolta e tesa, l’espressione cupa che ne trasmettono tutta l’angoscia e l’amarezza legate ai tempi difficili in cui viveva.
Il culmine della mostra è però la sezione “Presente inquieto”, di cui è simbolo efficacissimo l’impressionante opera monumentale di Aligi Sassu Battaglia dei tre cavalieri, presentata al Premio Bergamo nel 1941. Fu respinta con la motivazione che l’opera non passava dalla porta, rifiuto che in realtà nascondeva la volontà di escludere contenuti scomodi e critici verso il regime. L’imponente quadro, infatti, attraverso la rappresentazione del mito, incarna una denuncia vigorosa di ogni conflitto.
Ma il senso ineluttabile della morte emerge anche in una delle opere più evocative di Scipione (nome d’arte di Gino Bonichi), Cavalli davanti al mattatoio. Una scena ordinaria ci mostra due cavalli fermi, davanti al mattatoio, quasi presaghi e sottomessi al loro destino ineluttabile: un segno della consapevolezza della fine a cui neppure gli uomini possono sottrarsi.
Accanto alle opere in mostra sono accostati, in un dialogo incisivo con il presente, gli interessanti lavori di Norberto Spina, giovane artista torinese laureato a Brera e con un Master in pittura alla Royal Accademy di Londra. Spina ci mostra come il passato di una stagione come quella dell’Espressionismo Italiano sia in grado di parlare ancora al nostro tempo. E ai curatori dell’esposizione resta il merito di aver valorizzato anche un nuovo talento.
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