Con la sua Natività, Piero della Francesca riesce ancora una volta a sorprenderci grazie soprattutto alle sue scelte cromatiche e compositive che sempre esulano dai tradizionali canoni iconografici; si spinge così in territori inesplorati offrendoci squarci di bellezza delicati e al tempo stesso imponenti.
Se siamo soliti contemplare immagini della Natività vibranti di tenerezza e palpitanti di luce, qui l’autore ce ne propone una tutt’affatto diversa, ma non per questo meno affascinante.
Il primo sconcerto riguarda l’ora in cui si consuma la scena: anziché privilegiare la notte, Piero fissa l’avvenimento di questa nascita in pieno giorno. Una fredda luce meridiana spiove sui personaggi disposti stranamente in ordine sparso: non sono, Maria e Giuseppe, al riparo dentro la grotta; non giace il Bambinello nella mangiatoia di una stalla; non volteggiano gli angeli sopra la capanna; non ci sono i pastori che umilmente, insieme alle loro greggi, rendono omaggio al nato Gesù.
Il contesto è quello di un paesaggio arioso sul cui sfondo si intravedono appena – eppur si riconoscono – i luoghi di Piero. Non rinuncia l’artista a collocare l’eccezionalità dell’Incarnazione nel suo presente amato e familiare: le torri e i campanili del borgo vanno a chiudere l’orizzonte come pure, sulla sinistra dell’opera, la campagna tiberina si affaccia, aspra e variegata, offrendoci scorci suggestivi con il verde vigoroso degli alberi cui si alterna la pietra grigiastra di certe rocce impervie.
Fa da cornice ai protagonisti dell’evento, quasi si trattasse del fondale povero di un immaginario palcoscenico, la capanna: Piero la rappresenta come un muro semidiroccato riparato appena da una fragile tettoia; la sua funzione si limita semplicemente a circoscrivere il fatto, non certo ad ospitarne i personaggi che vi si collocano invece davanti e in primo piano.
A rompere il silenzio, è l’armonia festosa degli angeli suonatori: con le loro sagome tutt’altro che evanescenti, occupano la scena regalando a Gesù voci e musica di sapore divino, loro che di angelico hanno ben poco assimilabili come sono a “ragazzi di provincia, campagnoli un po’ rozzi, ma pur sempre nobili” (cfr. H. Focillon, Piero della Francesca, Abscondita, Milano 2004); non manca, ad accompagnare il concertino, lo scomposto raglio dell’asino che, seminascosto dal gruppo, rappresenta una nota prosaica di realismo come a ricordarci che quanto stiamo guardando è veramente accaduto.
Ad impedire il contatto del neonato con la nuda terra, è Maria che stende dinanzi a sé un ampio lembo del suo mantello provvedendo così a ricoverare il corpicino indifeso. Le braccia protese di Gesù sembrano invocare il calore di quelle materne senza però trovare la sperata corrispondenza. La sobria compostezza della Vergine nulla ha qui da spartire con la tradizionale rappresentazione che Piero aveva fino a quel momento riservato alle sue Madonne. La regalità, la solennità, la sontuosa imponenza che connotano il Polittico della Misericordia, la Pala di Brera, la Madonna del parto – per citare forse le più note – sembrano venir adombrate da questa Maria che il Longhi ebbe a definire “smunta divota”.
È un’opera tarda quella custodita alla National Gallery di Londra. Piero ha maturato intanto, nel progressivo evolvere della sua pittura, una sorta di verginale distacco, un distacco che traspare nei “minimi” con cui tratta le persone e le cose (cfr. R. Longhi, Da Cimabue a Morandi, Mondadori, Meridiani 1973). E tuttavia nulla trascura di entrambe: dalla elegante gazza che colloca sul bordo estremo della malferma tettoia appena scorciata, al basto su cui siede Giuseppe, discosto dal tradizionale nucleo della Sacra Famiglia e colto quasi di spalle mentre conversa con due pastori che gli indicano, forse, il percorso della cometa, lassù, nell’azzurro ceruleo di quel cielo meridiano.
Che cosa allora ci ferisce e ci attrae di questo strano dipinto che porta impresso indelebilmente il sigillo di Piero? Si mescolano, nella sua Natività, realtà e sogno, sentimento e ragione, dando vita così ad un misterioso e suggestivo intreccio di colori e di suoni da cui scaturisce un’armonia tacita e delicata: nessun effetto dirompente quindi, ma soltanto una somma curata di dettagli che vibrano grazie alla loro compostezza naturale e solenne: l’eccezionale si palesa dunque dentro la normalità, una normalità che Piero intercetta fino al punto da svelarci quel Mistero “rimasto nascosto per secoli e generazioni ed ora finalmente reso manifesto ai suoi santi” (cfr Col 1,26).