Dopo la sentenza 192/2024 della Consulta sull'autonomia differenziata, il regionalismo ha dovuto svoltare verso un opportuno ridimensionamento

Siamo un Paese in cui progetti di riforma costituzionale vengono continuamente avanzati e, nella più parte dei casi, smentiti o da referendum o da cambi di maggioranze politiche o da banali insabbiamenti o da molto altro ancora.

Sembra che la Costituzione e le sue clausole abbiano acquisito quella dimensione di eternità che altre Carte riservano ai massimi princìpi costituzionali che definiscono la forma dello Stato, modificabile solo con rivoluzioni o cambi radicali di regimi o con nuove assemblee costituenti figlie di questi accadimenti storici.



Anche in casa nostra vi è una clausola immodificabile con procedimenti di revisione costituzionale, ma si tratta dell’ultima norma della Costituzione relativa alla “forma repubblicana” che in effetti pochi pensano di modificare per reintrodurre la monarchia. Tutto il resto, sottoposto alla normale usura del tempo, può essere cambiato e adattato alle nuove condizioni economiche  e socio-politiche che preludono a cambi anche del sistema istituzionale fondamentale qual è quello sancito nella Costituzione del 1948.



Si potrà obiettare che modifiche sono state fatte, anche di recente, relativamente allo sport, elevato a valore costituzionale, o all’ambiente o, ancora, alla riduzione del numero dei parlamentari sulla spinta della pressione populista anti-casta. Cose più utili e anche necessarie sono rimaste al palo.

Il governo attuale è partito con grande enfasi per modificare la forma di governo nella direzione del presidenzialismo e introdurre l’autonomia differenziata; per ora, tuttavia, lo slancio iniziale non pare avere ancora la medesima forza dirompente, nonostante le dichiarazioni dei leader della maggioranza.



Vedremo se la nuova stagione politica si muoverà nella direzione del cambiamento o se anche le prime positive dichiarazioni saranno quantomeno procrastinate ad altra e più favorevole data.

L’aula del Senato (Ansa)

Il tutto mentre si attende (e si discute di) una riforma costituzionale del Titolo IV della Carta, quello sulla magistratura, che si fa largo tra opposizioni quanto mai agguerrite. Questa, del resto, è una riforma che da tempo è necessaria, dopo essere stata risparmiata dall’ultimo tentativo di riforma di sistema, quella di Matteo Renzi, che toccava gran parte della Costituzione vigente tranne proprio le regole sancite nel Titolo IV.

Forse a tutte queste oscillazioni e alternanze sottostà – e sarebbe una visione non priva di realismo – la consapevolezza che il Paese ha bisogno di grandi discorsi e di grandi slanci innovativi, ma che poi il cambiamento più necessario viene da riforme di minor calibro ma di maggiore incidenza sulla vita delle persone. Si pensi alla nuova pelle che sta assumendo la discussione sul regionalismo differenziato, calmierato da un’importante sentenza della Corte.

Dopo le richieste regionali orientate ad avere nuovi poteri in tutte le materie consentite dall’art. 116, comma 3, della Costituzione, la riforma sta assumendo un carattere più moderato, orientato su due linee di lavoro: da un lato un progetto di legge governativo annunciato già prima dell’estate che stabilisce i percorsi per giungere alla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali, dall’altro l’elaborazione di richieste regionali su poche materie quali la protezione civile, la previdenza complementare integrativa, le professioni e la sanità.

In quest’ultimo settore si profila un’interessante torsione delle richieste, non più volta a ottenere più competenze, ma – ben più realisticamente e intelligentemente – a esentare le regioni richiedenti (vedi Veneto) da una serie non breve di lacci e laccioli legislativi (e regolamentari) di derivazione statale che di fatto imbrigliano le amministrazioni regionali, impedendo loro di recuperare risorse da un uso più efficiente delle funzioni esistenti.

Se una regione risparmia mentre esercita una determinata funzione, perché non dovrebbe conservare tali risparmi per usarli con più libertà di quanta ne abbia oggi? In questo modo differenziazione e deregulation si incontrano sul terreno dell’efficienza senza alterare gli equilibri già precari della finanza pubblica.

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