Il caso della bambina di Monteverde sollecita un immediato intervento legislativo per rimettere al centro l'interesse del minore
A Roma è diventato un caso la bambina di Monteverde e se ne parla anche perché, alle violenze subite dalla madre e dalla bambina in famiglia, si aggiunge un’ulteriore forma di sofferenza legata all’intervento della forza pubblica, respinta da una vera e propria mobilitazione di quartiere.
È intervenuta anche l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, che si è rivolta a ben tre ministri: la ministra per la Famiglia, il ministro della Giustizia e il ministro dell’Interno “allo scopo di definitivo chiarimento in merito ai prelevamenti forzosi dei minori destinati al collocamento in case famiglia e/o altre strutture extrafamiliari, e in particolare all’uso della forza pubblica per l’esecuzione del prelevamento”.
In effetti ciò che ha sollecitato una forte indignazione nell’opinione pubblica è stato soprattutto il coinvolgimento della forza pubblica, chiamata in causa per prelevare da casa sua una bambina di cinque anni e condurla in una casa-famiglia.
La bambina, visibilmente angosciata dall’ipotesi del trasloco, non voleva assolutamente separarsi né da sua madre né dalla sua casa; è, per di più, una bambina fragile, affetta da una grave malattia rara, la malattia di Fabry, ed è portatrice di anemia mediterranea.
Rut, il nome di fantasia che le è stato assegnato, poche settimane fa in una circostanza analoga si era nascosta sotto una sedia, alla quale si era attaccata con dello scotch, per dimostrare inequivocabilmente quale fosse la sua volontà e cosa non volesse assolutamente fare.
Dalla parte della bambina si sono schierate, in entrambi i casi, molte famiglie del quartiere che ben conoscono la situazione familiare e sanno come la madre sia stata ripetutamente oggetto di violenze familiari da parte del compagno e, sia pure con un sommario giudizio popolare, ritengono ingiusta la separazione della bambina dalla madre.
Nel suo intervento l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ricordava ai tre ministri interpellati come “svariate sentenze stabiliscono che il provvedimento forzoso può essere adottato unicamente a tutela dell’incolumità del minore e nei casi in cui vi siano rischi certi e imminenti per la sua vita”. Il garante, inoltre, ha ribadito l’imprescindibilità dell’ascolto del minorenne. Principio sempre evocato e raramente applicato.
L’intervento della forza pubblica è stato interpretato come una ulteriore forma di violenza che si sommava a tutte le altre violenze già subite da madre e figlia, secondo un canovaccio che si ripete ormai troppe volte per poter essere ancora ignorato. E proprio per questo merita di essere analizzato nei suoi passaggi intermedi, in un’ottica decisamente preventiva, perché è fondamentale che non si ripeta più.
Con questa consapevolezza è stato presentato un ddl, sia alla Camera che in Senato, a prima firma dell’onorevole Cesa, che prevede una semplice modifica della legge 54/2006 sull’affido condiviso: ai padri violenti il figlio non può essere affidato in condivisione con la madre.
In realtà la proposta di legge parla del genitore violento, ma statisticamente si tratta quasi sempre della figura paterna, che usa violenza, fisicamente e psicologicamente, verso la madre, fino ad imporle l’ultima delle violenze immaginabili: la sottrazione del figlio. Quello che è stato definito come un vero e proprio furto del figlio. La definizione viene dallo psichiatra Paolo Cianconi, che di padri violenti ha grande esperienza, proprio in virtù del suo lavoro con i padri violenti che sono in carcere.
Accade in molti casi che la madre, dopo aver subìto ripetutamente varie forme di violenza, fisica, psicologica ed economica, si decida a denunciare il partner e questi allora tenti di colpirla in quanto ha di più caro, capovolgendo la situazione, passando da accusato ad accusatore, minacciandola di volergli sottrarre tempo e affetto del figlio. È la vecchia diagnosi di PAS (sindrome di alienazione parentale) più volte sconfessata, anche recentemente, dalla Cassazione.
Ma se l’uomo, come talvolta accade, per una sorta di narcisismo autoreferenziale, possiede capacità manipolatorie, allora disgraziatamente può riuscire a convincere della sua tesi anche interlocutori istituzionali. E se riesce a far credere di essere lui la vittima, il figlio sarà allontanato dalla madre e, spesso, sarà collocato in strutture come case-famiglia, o paradossalmente potrebbe essere affidato proprio a lui.
Ed è proprio questo il circuito vizioso che va smontato, il prima possibile, quello per cui la madre diventa due volte vittima e l’aggressore finisce con l’apparire una sorta di salvatore in extremis.
Il caso emblematico della bambina di Monteverde, oltre allo sdegno per il modo in cui si voleva prelevarla – almeno per ora, non andato a buon fine – desta una grande preoccupazione nell’opinione pubblica per il reiterarsi della violenza sui minori, duramente colpiti proprio con l’allontanamento del genitore più amato.
Ma c’è un ulteriore fattore di preoccupazione che si sta diffondendo tra le donne che subiscono violenza domestica: il timore che con la denuncia del compagno, marito o partner che sia, il figlio venga allontanato da lei e lei non riesca più a prendersene cura.
Se una donna è disposta a sopportare molta violenza per proteggere il figlio, non può certamente accettare di essere separata da lui. Attualmente però ci sono molte vicende giudiziarie in cui si verificano casi e circostanze di questo tipo.
Non possiamo dimenticare che la violenza è una patologia dell’anima capace di assumere una molteplicità di forme e di manifestazioni, fino a diventare molto sofisticata e colpire una persona in quanto ha di più intimo e di più caro, proprio nei suoi affetti familiari, compromettendone lo sviluppo successivo e creando personalità ancora più fragili, quando non decisamente violente.
Viviamo indubbiamente in un contesto di grande fragilità emotiva, psicologica, sociale. Donne e minori sono ancora una volta le vittime colpite con più frequenza, ma proprio per questo le responsabilità istituzionali crescono di pari passo per compensare, correggere, re-indirizzare le contraddizioni più vistose.
Venti anni fa la legge sull’affido condiviso, davanti all’impennata delle separazioni, intendeva garantire al figlio il sostegno affettivo, pratico ed economico di entrambi i genitori, arrivando ad immaginare una sostanziale parità di responsabilità e di oneri relativi.
Ma oggi il contesto è cambiato e l’esperienza mostra come il rischio maggiore venga da questa sotterranea e strisciante forma di violenza domestica, per cui per colpire il partner ci si serve del minore, senza ascoltarne le ragioni, strumentalizzandolo e dimenticando quel riferimento sacro al supremo interesse del bambino.
È una stortura che va corretta e un equilibrio che va ricreato, nel nuovo clima socioculturale in cui ci troviamo. Garantire al bambino quel nucleo relazionale profondo, capace di una presa in carico reale, tanto da poter essere considerato come un vincolo identitario, che lo sottragga al rischio di un anonimato istituzionale, diventa imprescindibile. E questo vincolo forte e indiscusso è quasi sempre rappresentato dal rapporto con la madre. Non sempre, ma quasi sempre, per cui proteggerlo quanto più è possibile sta diventando imprescindibile.
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