L’euro si avvia a chiudere il 2024 ai minimi contro il dollaro dopo aver sfiorato a fine novembre la barriera dell’1,0. Dopo la riunione del Consiglio direttivo della Bce di giovedì le probabilità di un taglio a gennaio di 50 punti base sono salite dal 30% di mercoledì a poco più del 50% di ieri sera. Oggi i mercati scontano quasi cinque tagli della Banca centrale europea nel 2025 e al massimo due della Fed. Questo accade prima dell’insediamento di Trump e prima che diventi chiaro quali saranno le politiche commerciali e fiscali del Presidente eletto al di là delle dichiarazioni della campagna elettorale e di quelle negoziali delle ultime settimane.
Il cambio euro/dollaro riflette le diverse attese su crescita e tassi che aprono alla possibilità di una fase di disaccoppiamento delle politiche monetarie tra Europa e Stati Uniti. Il disaccoppiamento non è una novità assoluta perché, dopo il 2014, l’Europa ha lasciato i tassi a zero per quasi otto anni fino a giugno 2022; gli Stati Uniti, invece, a partire dall’autunno 2015 hanno portato i tassi fino al 2,5% di metà 2019.
In quella fase l’Europa usciva dalla crisi dei debiti sovrani in uno scenario economico e politico profondamente diverso da quello attuale. Non c’erano crisi energetiche, né conflitti caldi in zone delicate del pianeta e nessuno parlava di protezionismo nei termini in cui se ne parla oggi. Il contesto era ancora deflattivo anche grazie alle esportazioni cinesi. L’euro, in meno di un anno, a partire da giugno 2014, perdeva il 30% contro il dollaro senza che si generassero particolari scossoni né sui prezzi, né sui mercati dei capitali; gli Stati Uniti accettavano la svalutazione dell’euro su cui l’Europa continuava a costruire il suo modello fatto di industria ed esportazioni. Si potrebbe quindi concludere che lo scenario, così come appare agli investitori in questi ultimi giorni del 2024, non sia particolarmente problematico e che quello che l’Europa perderà sul cambio guadagnerà in competitività.
La Fed abbassa i tassi con l’inflazione ben sopra al 2% nella convinzione di essere in un percorso di graduale riduzione e comunque in un’ottica di preferenza per la piena occupazione. Le politiche fiscali e commerciali americane però non sono deflattive, soprattutto in un contesto di rottura delle catene di fornitura globale e di conflitti. Bisogna sottolineare che sui mercati dei titoli di stato si notano segnali di stress. Possiamo riferirci, per esempio, al recente aggiornamento trimestrale della Banca internazionale dei regolamenti in cui si evidenzia la pressione sull’assorbimento dei debiti governativi (sotto forma di interest rate swap spreads negativi).
Fare i calcoli sui costi di un disaccoppiamento delle politiche monetarie, tra Bce e Fed, sulla base di quello che è successo nel 2015-2022 è pericoloso. Il contesto è completamente diverso anche sui mercati finanziari. L’Europa non è una monade immune da quello che accade fuori dai suoi confini, sui prezzi, sui tassi, sulle politiche fiscali, commerciali e su molto altro. Ieri il decennale americano rendeva il 4,4%, quello italiano il 3,4% e quello tedesco il 2,3%. La differenza tra rendimento del decennale americano e tedesco non è lontana dai massimi degli ultimi 35 anni, mentre le condizioni economiche dell’Europa, rispetto a quelle americane, lasciano qualche perplessità sull’andamento futuro del cambio euro/dollaro. Oggi gli Stati Uniti, lo testimoniano ogni giorno i principali indici americani, sono ancora l’approdo dei risparmi globali nonostante i loro deficit, commerciale e pubblico. Le prime sette società quotate americane per capitalizzazione, nonostante le valutazioni, valgono più di tutte le borse europee messe assieme. Gli Stati Uniti nel frattempo hanno abbandonato qualsiasi velleità “green” e recuperano margini, anche rispetto ai tassi, con costi dell’elettricità che sono un decimo di quelli italiani.
È lecito chiedersi quanto lungo e quanto profondo possa essere il disaccoppiamento che l’Europa si può permettere prima che i costi superino i benefici. In questo calcolo bisogna considerare gli stress sui mercati di titoli di stato e il fatto che le svalutazioni monetarie, ovviamente, vengono percepite come una contromisura di politica commerciale. Si deve anche considerare che lo scenario di fondo non è più deflattivo ma l’opposto e questo è il mantra ripetuto dai manager dei principali gruppi finanziari globali da almeno un anno; guerre commerciali, invecchiamento della popolazione, spesa fiscale, conflitti, energy transition sono considerate dagli investitori, a torto o a ragione, forze inflattive di lungo termine.
Non potendo, forse, agire troppo sulla politica monetaria, l’Europa dovrà cercare in fretta altre leve per abbassare i costi dei suoi cittadini agendo sulla bolletta energetica, sui rapporti internazionali e rivedendo la transizione energetica. Diversamente rimane solo l’arma rischiosa della politica monetaria.
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