Concludendo il volume dedicato all’esame delle questioni canoniche connesse alla rinuncia di Benedetto XVI pubblicato nel 2015, Geraldina Boni osserva che “Joseph Ratzinger esercita ancora, a giovamento della Chiesa, un ministero spirituale altissimo, ma non avvinto al munus (officium) di […] pontefice, bensì al munus sacramentale trasmessogli con la consacrazione episcopale”.
A distanza di dieci anni dalla sua rinuncia l’osservazione/auspicio della Boni, realizzatasi di fatto ed entrata nella consapevolezza dei fedeli, rappresenta un punto acquisito e – forse – di non ritorno, superando così l’equivoco presente in alcuni commentatori, ma anche tra i fedeli, di una spartizione del munus petrino tra due papi, Benedetto e Francesco, avendo il primo, con la sua rinuncia, trasfigurato la plenitudo potestatis in plenitudo caritatis.
La copiosa riflessione canonistica intorno a quell’atto di Benedetto XVI ha permesso di ripercorrere e di ripercorrere sinteticamente le delicate problematiche che ruotano intorno alla rinuncia. I canonisti, pur riconoscendo le difficoltà derivanti dallo scarsissimo numero di canoni specificamente consacrati a questa materia, sono riusciti a ricostruire, a partire anche dalle altre disposizioni canoniche applicabili, la sistematica delle norme che presiedono a questo atto, arrivando ad un giudizio, nella sostanza, positivo sulla funzionalità della disciplina che regola questo atto papale. Così si è chiarita la problematica intorno a tre punti: la natura dell’ufficio primaziale del pontefice, la posizione canonica del pontefice dopo la rinuncia e, infine, le relazioni tra papa regnante e papa emerito, che sono, secondo taluni studiosi, quelli nei quali si possono individuare le aporie più rilevanti da risolvere.
In estrema sintesi, in ordine al primo punto, certamente il più rilevante, risulta minoritaria, e, a mio avviso, comunque non sufficientemente provata, la tesi di chi ritiene che il munus petrino non cesserebbe con la rinuncia all’ufficio, ma permarrebbe nella persona che ha rinunciato, per cui, come abbiamo accennato, il nuovo papa ne eserciterebbe l’aspetto connesso al governo, mentre nel papa emerito risiederebbe ancora l’aspetto spirituale del munus stesso. Al superamento di un tale ipotetico dualismo ha contribuito non poco la vita della Chiesa che, in questi dieci anni, forse soprattutto per la natura dei rapporti instauratisi tra i due protagonisti della vicenda, ha potuto superare quel frangente.
Il lavoro dei molti canonisti che si sono piegati sull’argomento ha messo in luce come il diritto canonico richieda che la rinuncia del pontefice (non si può assolutamente parlare di dimissioni che, per loro natura, devono essere accettate da qualcuno e non è il nostro caso) sia valida, legittima e lecita, vale a dire, per quanto riguarda i primi due requisiti, sia rispettosa di quanto prevede il diritto canonico e quanto al terzo avvenga in presenza di una giusta causa.
Devono cioè essere presenti le condizioni previste dal can. 188 per la rinuncia ad un ufficio ecclesiastico, quindi, fatta quando il suo autore è nel pieno possesso delle sue facoltà mentali e frutto di una sua libera scelta. Il pontefice, quindi, non vi può essere obbligato, non solo da eventuali autorità politiche esterne, ma neanche dalle autorità ecclesiastiche, siano esse il concilio ecumenico o il collegio cardinalizio. La rinuncia deve rispettare i requisiti richiesti per la rinuncia papale (can. 332 § 2) cioè essere espressa ritualmente, e, come detto, non deve essere accettata da alcuno.
Quanto alla liceità, e questo è un dato confermato dalla dottrina in questi anni, essa deriva dal fatto che siano stati rispettati alcuni criteri, si sia in presenza di motivi oggettivi, sia finalizzata al bonum Ecclesiae sia presa di fronte a Dio stesso. E se a questo, qualunque sia la causa contingente, deve tendere un tale atto, mi sembra opportuno riprendere la qualificazione della rinuncia data dal card. Saraiva Martins che, in un’intervista all’indomani della rinuncia, parlava di “un atto straordinariamente normale”. Normale perché parte della vita della Chiesa e straordinario per il suo rilievo soggettivo e oggettivo.
Un altro problema ormai risolto è, in particolare, quello della condizione canonica del papa dimissionario. Utilizzando la scelta di Paolo VI di creare il titolo di emerito per i vescovi che avessero presentato le dimissioni al compimento dei settantacinque anni, si è tipizzata la figura del papa emerito, a indicare che il pontefice conserva i diritti di tutti i vescovi emeriti e rimane episcopus consacratus.
Per due brevissimi riflessioni conclusive: a mio avviso, non è inopportuno sottolineare che, accanto al rischio, forse tramontato, di considerare, di diritto e di fatto, impossibile la rinuncia, che traspariva da alcune delle reazioni di dieci anni fa, oggi sembra prevalere quello di banalizzarla, riconducendola ad una prassi, anche ecclesiastica, che considera il peso dell’età, dei problemi e delle responsabilità come causa adeguata di un atto di tale portata, senza guardarli sotto il profilo del bonum Ecclesiae. Permettete, infine, un’ultima osservazione, che è piuttosto un invito: che dentro il dibattito su aspetti specifici di regolazione di un istituto, come quello della rinuncia del pontefice, per riprendere l’osservazione di Fantappiè, possa continuare l’approfondimento del significato del primato petrino, e delle sue forme future di esercizio, senza opporre la chiesa-sacramento alla chiesa-istituzione.
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