Ieri Roberto Benigni ha fatto due ore di monologo raccontando il “suo” san Pietro. Uno spettacolo raro, autentico. Cè però qualcosa che sempre sfugge
Ieri sera Roberto Benigni ha raccontato la figura di san Pietro sul primo canale della Rai. La produzione era di Simona Ercolani, una delle sette o otto persone in Italia che un certo tipo di tv la sa fare davvero. Il programma non ha avuto nessuna interruzione pubblicitaria. In compenso molti spot sono stati programmati prima, ritardandone l’inizio.
Dal punto di vista formale si tratta di un prodotto televisivo abbastanza raro. I programmi di sola parola nella tv contemporanea abbondano. Ciò per motivi economici e anche perché, diversamente da quanto si crede e contrariamente a quanto avviene al cinema, in televisione la parola è molto più importante delle immagini. La tv è figlia della radio e, specialmente, nel day time, più che guardarla, la si ascolta.
Ma prodotti come quello di ieri sera si distinguono radicalmente dagli altri. Sono infatti pochi i personaggi come Benigni in grado di reggere un racconto televisivo per due ore consecutive, senza pause e senza cali di tensione. C’è qualche esempio analogo, però in un genere completamente diverso, quello della comicità.
Indipendentemente dal contenuto, uno dei segreti di Benigni è la comunicazione dello stupore. Si tratti di una terzina di Dante, dei dieci Comandamenti o di san Francesco, Benigni trasmette la “sua” meraviglia, con una enfasi che lo spettatore non sente esagerata o falsa. È la sua partecipazione entusiasta che trasforma la descrizione in racconto e il racconto in spettacolo.

Si tratta di una regola, un “segreto”, che chi fa televisione conosce bene. Quando un conduttore non è davvero interessato, colpito, coinvolto con quello che racconta, prima o poi lo spettatore attento se ne accorge e lo abbandona. Vale per chi descrive un’opera d’arte, per chi fa domande in un talk show e anche per chi racconta la vita di un santo.
E siamo dunque al secondo aspetto, quello del contenuto. Benigni ha raccontato alcuni episodi del Nuovo Testamento (non quello della resurrezione) con vivezza, ma a modo suo, con la lente interpretativa dell’amore. L’impresa di raccontare san Pietro da un certo punto di vista era facile, da un altro difficile. Facile perché Pietro è figura dal fascino universale, a maggior ragione raccontando la sua vicenda con alle spalle la meraviglia del cupolone. Difficile perché è arduo spiegare che la sua statura umana, la sua irruenza, la sua generosità, il suo cadere e rialzarsi sono frutto della compagnia con Gesù.
Il punto, cioè, non è il carattere. Forse è quasi più facile parlarne con le immagini, come hanno fatto ad esempio Masolino e Masaccio: nei loro dipinti si capisce subito che la faccia dell’uno è specchio di quella dell’Altro. Ma è anche vero che per la Cappella Brancacci bisogna prendere il treno fino a Firenze, pagare il biglietto di ingresso, farsi largo tra i turisti e infine aguzzare la vista, perché gli affreschi sono abbastanza in alto. Oltre ad immedesimarsi nell’animo di un uomo del quattrocento.
Bene dunque che oggi la Rai faccia il suo compito, che un grande attore metta il suo talento al servizio di un racconto così importante, che la Fabbrica di San Pietro, il Governatorato e il Dicastero per la Comunicazione vaticani lo abbiano permesso e che dunque molti lo possano vedere.
Infine, non chiediamo alla tv quello che non può dare. Resta pur sempre solo uno spettacolo. D’altro canto, per capire davvero le cose grandi ci vuole il tempo di una vita e, soprattutto, qualcuno di amico che con pazienza, cura e intelligenza, in quel tempo ti accompagni.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
