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Home » Economia e Finanza » Economia UE » BILANCIO UE/ “Risorse inadeguate, tutti i Paesi devono poter spendere come la Germania”

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BILANCIO UE/ “Risorse inadeguate, tutti i Paesi devono poter spendere come la Germania”

Int. Gustavo Piga
Pubblicato 18 Luglio 2025
Ansa

Ansa

Il Quadro finanziario pluriennale presentato dalla Commissione europea non pare in grado di affrontare le sfide che l'Ue ha di fronte

La proposta sul nuovo Quadro finanziario pluriennale 2028-34 presentata mercoledì dalla Commissione europea crea già qualche malumore. L’aumento a 2.000 miliardi, grazie anche all’introduzione di nuove imposte europee, tra cui una specifica sulle grandi imprese con fatturato superiore a 100 milioni di euro, è stato giudicato “inaccettabile” dal portavoce del Governo tedesco. Gli agricoltori protestano invece per i tagli ai fondi ritenendo compromessa la Pac. Non va infine trascurata l’insoddisfazione espressa dagli europarlamentari sulla bozza del nuovo bilancio settennale.


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Secondo Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, per valutare la proposta di Bruxelles occorre «contestualizzare il momento in cui viene presentata e credo occorra farlo partendo dal punto di vista del Paese che più sta influenzando le dinamiche globali, soprattutto economiche: gli Stati Uniti».


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Cosa si può dire da questo punto di vista?

Gli Stati Uniti chiedono espressamente all’Europa due cose: accettare i dazi e aumentare le spese militari. Si tratta di richieste che nascono dalla necessità di ridurre il deficit commerciale degli Usa e liberare risorse di bilancio spostandole dalla difesa a politiche fiscali in linea con il programma elettorale di Trump. Più in generale l’obiettivo della nuova Amministrazione è riportare i fattori di sviluppo all’interno dei confini nazionali, facendo sì che gli Stati Uniti non siano più gli acquirenti, ma i produttori del mondo.


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In effetti anche questo è un obiettivo dichiarato della Casa Bianca…

Sì e lo è sia per ragioni di sicurezza, sia per ragioni politiche, visto che la base elettorale trumpiana è stata falcidiata dalla globalizzazione. Ecco, in questo contesto, destinato a durare almeno altri tre anni, cioè fino a che non scadrà il mandato di Trump, l’Europa accetta di fatto le richieste americane che non possono certo far bene alla propria economia e al proprio welfare, ridotto per aumentare le spese militari, come testimoniato dalla Francia, che si prepara a tagliare la spesa pubblica e a non adeguare pensioni e stipendi pubblici all’inflazione e, contemporaneamente, ad aumentare la spesa nella difesa. Il che, come sappiamo, genera entropia, populismo, rivolta interna nell’Ue.

C’è un modo per soddisfare le richieste degli Usa senza creare danni all’economia europea?

Sì ed è anche piuttosto semplice: va rilanciata l’enorme potenzialità europea, rappresentata dalla domanda interna, che è stata invece finora castigata da tanti anni di austerità. Per oltre vent’anni abbiamo portati avanti una politica ampiamente basata sulla compressione dei salari per essere competitivi e aumentare l’export, danneggiando però i consumi delle famiglie, la spesa pubblica e gli investimenti privati.

Politiche che non sono state cambiate con le nuove regole del Patto di stabilità.

Esattamente. Si tratta di regole che rendono impossibile aumentare gli investimenti pubblici, diminuire le tasse, incrementare i redditi, arrivando poi a generare una crescita in grado di abbattere i rapporti deficit/Pil e debito/Pil tanto cari a Bruxelles.

Adesso, però, è stato presentato questo Quadro finanziario pluriennale da 2.000 miliardi di euro, una cifra che non si era mai vista prima.

Dobbiamo chiederci se questo Quadro finanziario pluriennale sia capace di far fronte allo shock generato dalle richieste americane all’Ue, di rilanciare la domanda interna, di stravolgere il modello export-lead. La risposta, a mio avviso, è un chiarissimo no.

Ce lo può motivare?

Lo motivo principalmente con le cifre in questione. Ursula von der Leyen ha enfatizzato il fatto che si passerebbe a 2.000 miliardi dai 1.200 del precedente bilancio, un aumento a prima vista considerevole, ma che in realtà corrisponde a poco più di 100 miliardi l’anno, lo 0,5% di Pil dell’Ue. Se poi ci aggiungiamo che quasi 30 miliardi di euro l’anno vengono destinati al rimborso degli interessi sul debito comune contratto per il Next Generation Eu abbiamo ancor più la contezza di quanto irrisorio sia l’incremento delle risorse.

Un aumento che comunque la Germania ha già detto di ritenere inaccettabile…

Sì, è uno dei tanti ostacoli che già si presentano per l’approvazione di questa proposta della Commissione, che vede anche l’opposizione di parte del Parlamento europeo e di alcune categorie produttive, nonostante la Presidente von der Leyen abbia cercato di spiegare che restano tutele per agricoltura e pesca, per non parlare delle grandi imprese che dovrebbero vedersi assoggettate a una nuova imposta europea. Tecnicamente quello che mi preoccupa di più, e credo preoccupi anche gli Stati membri, è il fatto che la Commissione stia cercando di aumentare i propri poteri.

Ci spieghi meglio.

I fondi di coesione sono sempre stati luogo di sfogo delle autonomie nazionali, con le regioni e gli enti locali che hanno sempre chiesto di giocare un ruolo rilevante. La mia impressione è che la richiesta di passare a un modello di erogazione dei finanziamenti in stile Pnrr, con riforme in cambio di risorse, dia alla Commissione europea un ruolo burocratico centrale che non sarà gradito agli Stati membri.

Le trattative per modificare la proposta della Commissione potranno durare anche due anni, qualcosa su questo fronte si potrà migliorare.

Il Quadro finanziario pluriennale potrà anche essere modificato nei due anni circa di trattative che ci saranno, ma quasi certamente le risorse non aumenteranno. E se questo è il massimo che possiamo ottenere da Bruxelles, di fronte alle mosse strategiche di ampia portata dell’Amministrazione americana, non penso che l’Ue potrà fare molta strada. C’è, a mio avviso, una questione di fondo ineludibile.

Quale?

Bisognerebbe chiedersi che tipo di federalismo vuole l’Europa, dove vuole che sia il potere decisionale per affrontare le crisi. Gli Stati Uniti, nei loro duecento e passa anni di storia, non hanno mai vissuto un momento della loro fase economica in cui non avessero i poteri per espandere la politica fiscale durante una crisi. Nell’Ottocento ogni singolo Stato poteva ricorrere al deficit, anche perché a Washington non c’erano risorse proprie per fare politica fiscale espansiva. Con Roosevelt sono cambiate le cose: sono stati creati fondi centralizzati e sono stati fissati dei vicoli di bilancio per i singoli Stati piuttosto rigidi, ma a quel punto è diventata Washington a fare la politica fiscale espansiva per tutti.

Dunque, non c’è stato un periodo in cui i singoli Stati o Washington non potessero fare politica fiscale espansiva.

Esattamente. L’attuale costruzione europea, invece, unica nel suo genere, non prevede la possibilità per gli Stati membri di attuare una politica fiscale espansiva e non ha un bilancio a Bruxelles che svolga questo compito, se non con numeri ridotti. Se pensiamo di poterci accontentare di queste briciole, le cose per l’Europa non miglioreranno, anzi il progetto di Unione rischierà di saltare.

Nel Quadro finanziario pluriennale è stato, però, previsto un fondo di 400 miliardi destinato proprio ad aiutare i Paesi membri a far fronte a situazioni di crisi….

La von der Leyen ha spiegato che vi sono garanzie e regole chiare per l’attivazione. Il che vuol dire che vi saranno condizioni in stile Mes o che verrà richiesto di aderire a programmi successivi di austerità, di cui certamente un Paese in crisi non ha bisogno. Il che lascia supporre che a quel fondo non vorrà ricorrere nessuno.

Qual è, allora, l’alternativa alla proposta della Commissione che andrebbe messa in campo?

Ci vorrà del tempo per costruire la coesione necessaria a creare una vera unione e un vero bilancio federale, nel frattempo va modificata la costituzione fiscale europea per far sì che gli Stati membri possano fare quello che la Germania ha deciso in maniera arrogante di fare da sola: politiche fiscali espansive in modo autonomo. Tuttalpiù Bruxelles potrebbe occuparsi del monitoraggio della qualità della spesa.

Non teme una reazione negativa dei mercati?

Se i Paesi europei agissero collettivamente, i mercati reagirebbero positivamente, anche perché Trump potrebbe spiegare che è una cosa positiva, visto che aumenteranno i consumi europei contribuendo a un nuovo equilibrio mondiale: un’Ue più proattiva potrebbe affrontare meglio i suoi problemi e aiutare a risolvere quelli degli altri.

Perché gli Stati membri, invece di fare quello che auspica sulla politica fiscale, riuniti all’Eurogruppo la scorsa settimana hanno detto di ritenere adeguati l’attuale politica di bilancio restrittiva e un orientamento sostanzialmente neutro per il prossimo anno?

Penso sia anche una questione di leadership. Credo che l’unico attore che in questo momento può andare a Washington per spiegare a Trump che in Europa c’è bisogno di un grande piano interno espansivo e che occorre che lui faccia reagire entusiasticamente i mercati a questa ipotesi sia la Meloni. Sono sicuro che il Presidente americano accetterebbe di fare la sua parte, ma sarebbe poi importante non far vedere ai mercati i leader europei divisi su questo piano, altrimenti la loro reazione non sarebbe più positiva.

Come si può evitare di far “litigare” i leader europei su questo piano?

Penso basti una forte presa di posizione di Washington. Come abbiamo visto in questi mesi, appena l’America parla, l’Europa si genuflette. Stia certo che nel momento in cui Trump dovesse chiedere l’abolizione del Fiscal compact, nell’Ue si troverebbe il modo di farlo.

(Lorenzo Torrisi)

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Tags: Ursula Von Der LeyenGiorgia MeloniDonald TrumpPatto di stabilità

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