Tiriamo fuori subito tutte le carte e mettiamo le cose in chiaro: non esito a definire questo concerto uno dei più belli a cui ho assistito in una quarantina abbondante di anni di frequentazioni live. Forse il più bello in assoluto, per tutta una serie di elementi concomitanti, il più importante dei quali è una ricchezza espressiva difficilmente rintracciabile in altre esperienze musicali del presente. Costruendo un gioco di parole con il nome dell’artista in questione (Bon Iver, già storpiatura dell’augurio francese ‘bon hiver’, buon inverno, poi magari ci capiremo di più), potremmo dire ‘best concert iver’. E adesso si può partire.
La cornice incantevole del Castello Scaligero di Villafranca di Verona, la luce naturale anch’essa magica, visual e light show di livello altissimo ed una band preparatissima e fedele hanno completato il piatto forte, costituito dalle canzoni di Justin Vernon, originario di Eau Claire, Wisconsin, sulle scene musicali dal 2007, anno del suo primo album For Emma, Forever Ago. Per arrivare ad oggi, ne dobbiamo contare altri due, più un EP: Blood Bank (EP, gennaio 2009), Bon Iver Bon Iver (LP, giugno 2011, due Grammy Awards vinti) e 22, a million (LP, settembre 2016). In uscita il 30 agosto il suo prossimo album dal titolo misterioso, i,i .Ah, non dimentichiamo a completare il quadro, più di 9000 persone davanti al palco (ad onor di cronaca, moltissimi provenienti dall’estero) pronti a seguire l’itinerario musicale dell’artista.
Era solo per inquadrare brevemente l’esperienza di questo musicista e cantautore – e mi sembrava necessario – ma vorrei staccarmi subito dalla recensione per esperti, della quale si possono beare solo i già fans. Mi piacerebbe dare un’idea accessibile a tutti di quello che è successo in questo memorabile evento musicale. Sul palco Justin è al centro, con davanti una console ed una serie di chitarre che si alternano a seconda dei brani. Intorno a lui quattro straordinari polistrumentisti: Sean Carey, batteria e tastiere, Matthew Mc Caughan, batteria e cori, Michael Lewis basso, sax e tastiere e Andrew Fritzpack, chitarra e tastiere. Partito come artista indie folk con il suo primo album, registrato in totale solitudine nella casa di montagna di suo padre (da qui, e da una serie tv in cui era contenuto quell’augurio – buon inverno – il nome Bon Iver, ma non perdiamoci!), in questi dodici anni l’artista ha costruito una tavolozza sonora estremamente ricca ed elaborata, che attinge a molti mondi – folk, americana, rock, noise, 80’s – il tutto condito da abbondante elettronica. I suoi compagni di avventura cambiano strumento a seconda di cosa serve, con una dinamica più vicina ad un ensemble classico che ad una rockband. La sua voce, che da sempre altalena fra le frequenze basse e l’inconfondibile falsetto, disegna le belle melodie, spesso arricchita da precisi background vocals ed effetti, oltre che dallo strumento progettato appositamente per lui, una sorta di vocoder che si chiama Messina, dal cognome di chi lo ha inventato.
Fossimo stati 20 anni fa avremmo definito questo sound post-moderno. Io penso sia il suono del nostro presente, che butta nel cestino tutte le polemiche sulla musica del passato e quella del presente: ascoltando questo concerto la musica ACCADE, nella precisione della scrittura degli arrangiamenti, della potenza sonora (aperta e chiusa parentesi: suono perfetto, pur essendo questa una situazione per niente facile da gestire), senza nemmeno una parola di introduzione e solamente i ringraziamenti a scandire le brevi pause fra i pezzi.
Inizio annunciato alle 21,15, è ancora giorno, ma alle 21,16 le note magiche dell’intro di Perth fanno già capire che la serata sarà magica. I titoli che menzionerò serviranno soprattutto a permettere a tutti coloro che lo vorranno di andarsi a cercare queste meraviglie sonore, nelle versioni originali o nelle molteplici elaborazioni presentate negli anni. Si prosegue con 666, che lascia molto spazio alle spezzature ritmiche del batterista, in un finale fantasmagorico. Heavenly Father chiude una triade d’apertura che lascia senza fiato. Il pubblico, tutto in piedi, è attentissimo a sottolineare il tripudio dei brani più ritmici ed aggressivi e ad accompagnare in religioso silenzio le pennellate più delicate, come 715 Creeks, perla solitaria per voce e Messina, che segue il noise con botte di bassi nello stomaco di 10 d E A T h b R E a s T. Una impeccabile versione di Calgary (uno dei brani più rappresentativi del secondo album, quello dei Grammy) e le radici blues tirate fuori dalla terra di Creature Fear concludono il primo set, alle dieci e un quarto spaccate.
Venti minuti di pausa e si riparte con il primo grande successo, cantato ad una sola voce da buona parte dei 9000 e accompagnato solo dalla rugginosa chitarra acustica dell’origine, Skinny Love. Poco dopo arriva l’atro grande pezzo (ripreso in un suo album di covers niente di meno che da Peter Gabriel), Flume, e poi una anticipazione del prossimo album, Hey Ma, dedicata dall’artista alla sua infanzia e corredata di immagini di quel periodo sullo sfondo. Segue un trio di canzoni che fa entrare in un sogno (non è sentimentalismo, è una bellezza davvero commovente, nella bellezza melodica ed armonica e nella perfezione dell’esecuzione): 33 “GOD”, poi 8 (circle) ed infine Holocene, preceduta solo dalla presentazione dei membri della band. The Wolves (Act I and II) e For Emma, tratte entrambe dal primo album chiudono il cerchio, ore 23:15. Una breve uscita di scena e poi dentro per un unico bis, 22 (OVER S∞∞N). “It may be over soon”, dice la voce campionata di Mahalia Jackson, ed effettivamente con questa canzone il concerto finisce. Mentre sciamiamo via insieme all’altra gente, l’occhio mi cade su tre ragazzi, tre amici che restavano abbracciati e fermi mentre tutti gli altri andavano verso l’uscita. Come volessero rimanere lì, dopo aver assistito a qualcosa che, evidentemente, aveva aperto loro il cuore. Nel nostro presente c’è ancora spazio per musica bella, costruita bene, ricca e che muove non il sentimentalismo becero ma il sentimento vero, che in qualche modo affratella.
Postilla finale: evidentemente queste canzoni, questo stile nel trattare il materiale musicale, nell’arrangiarlo e modellarlo si accorda con una certa sensibilità e certamente, come io ne sono rimasto esaltato, a qualcuno potrà anche non piacere. Altrimenti tutta la musica piacerebbe a tutti e verrebbero piallati il gusto e l’esperienza – benedette le differenze! -. Quello che io so è che noi, presenti l’altra sera abbiamo assistito ad uno show intenso, pieno di belle melodie, di arrangiamenti curati con cura, di geometrie vocali e di geometrie di luci, di cura maniacale per i particolari, il tutto allestito e curato per creare un mondo sonoro affascinante. E che la musica in questo nostro presente ha ancora molto da dire. Purché sia musica ed intercetti il cuore.
SETLIST
- 1. Perth
- 2. 666 ʇ
- 3. Heavenly Father
- 4. Towers
- 5. Blood Bank
- 6. ____45_____
- 7. 10 d E A T h b R E a s T
- 8. 715 – CREEKS
- 9. 29 #Strafford APTS
- 10. Calgary
- 11. Creature Fear
Set 2
- 1. Skinny Love
2. Minnesota, WI
3. Flume
4. Hey, Ma
5. 33 “GOD”
6. 8 (circle)
7. Holocene
8. The Wolves (Act I and II)
9. For Emma
Encore:
22 (OVER S∞∞N)