Secondo quanto emerge dai verbali relativi al meeting del Federal Open Market Committee (Fomc) di 21-22 settembre, la Federal Reserve ha discusso un piano per avviare il tapering a metà novembre o metà dicembre. Diversi rappresentanti dell’istituto centrale di Washington hanno dichiarato di preferire procedere a un ritmo più rapido, altri hanno evidenziato timori per i rischi di una reazione avversa del mercato al tapering. In generale è stato valutato che l’azzeramento del piano di stimolo si concluda “intorno alla metà del prossimo anno”.
I rappresentanti dell’istituto centrale di Washington hanno discusso un piano per avviare a metà novembre o metà dicembre la riduzione del sostegno di emergenza all’economia Usa, realizzato attraverso l’acquisto di 120 miliardi di dollari al mese in Treasury e titoli legati ai mutui. Il tapering potrebbe essere pari a 15 miliardi su base mensile, di cui 10 miliardi in titoli di Stato e 5 miliardi in mortgage backed security.
“I partecipanti hanno generalmente valutato che, a condizione che la ripresa economica rimanga sostanzialmente sulla buona strada, sarebbe probabilmente appropriato un graduale processo di tapering che si concludesse intorno alla metà del prossimo anno”, si legge nei verbali del Fomc.
Segnali di rallentamento
Intanto continuano ad arrivare segnali di rallentamento da parte delle maggiori economie e di aumento invece dei livelli di inflazione.
In agosto la produzione industriale è cresciuta in Giappone dell’8,8% annuo, in rallentamento rispetto all’11,6% di luglio e sotto al 9,3% della lettura preliminare diffusa a fine settembre. Su base mensile, rettificata stagionalmente, la produzione industriale è invece calata del 3,6% dopo il declino dell’1,5% di luglio e contro la flessione del 3,2% del dato flash.
Il Pil della Cina ha segnato una crescita del 4,9% annuo nel terzo trimestre 2021, contro il 7,9% precedente e sotto al 5,2% del consensus di Reuters. Su base sequenziale il Pil è invece salito di appena lo 0,2% contro l’1,2% del secondo trimestre e lo 0,5% atteso dagli economisti. Debole anche la produzione industriale che a settembre è cresciuta in Cina del 3,1% annuo, in frenata rispetto al 5,3% di agosto e sotto al progresso del 3,8% del consensus del Wall Street Journal.
In settembre i prezzi alla produzione sono cresciuti in Cina del 10,7% annuo, in accelerazione rispetto al 9,5% di agosto e attestandosi sui massimi dal 1996, quando si era iniziato a elaborare la statistica. Il tasso d’inflazione è invece calato allo 0,7% annuo dallo 0,8% di agosto, contro lo 0,9% del consensus di Reuters.
Negli Usa il Dipartimento del Lavoro ha comunicato che nel mese di settembre l’indice grezzo dei prezzi al consumo è cresciuto dello 0,4% rispetto ad agosto, risultando superiore alle attese (+0,3%) e alla rilevazione precedente (+0,3%). Su base annuale l’indice si è attestato al +5,4%, superiore alla lettura di agosto e al consensus (entrambe pari al +5,3%). L’indice Core (esclusi energetici e alimentari) è cresciuto dello 0,2% rispetto al mese precedente (consensus +0,2%). Su base annuale l’indice è salito del 4% risultando pari alla rilevazione precedente e alle attese.
Insomma, la crescita dei prezzi è ormai un dato acquisito, che rischia di farci compagnia a lungo, checché ne dicano i banchieri centrali, mentre le previsioni di crescita dell’economia, molto rosee fino a poco tempo fa, stanno perdendo di credibilità. Ad esempio, il Fondo monetario internazionale ha di recente abbassato la stima di crescita del Pil globale 2021 a +5,9% da +6% della precedente indicazione.
Inflazione e mercati finanziari
L’inflazione è un fenomeno complesso. Prima dell’era “moderna”, cioè quando gli Stati emettevano moneta garantita da una equivalente riserva aurea, l’inflazione era un fenomeno praticamente sconosciuto o perlomeno straordinario. Possiamo ricordare la guerra civile negli Stati Uniti o le guerre napoleoniche combattute dal Regno Unito, in cui, in modo del tutto inconsueto, gli Stati stampavano moneta avente corso legale in eccesso rispetto al controvalore delle riserve auree esistenti allo scopo di finanziare le guerre e l’enorme sforzo militare connesso. Lo stesso accadde durante la Prima guerra mondiale, nel 1914. Da quel momento in poi, e soprattutto dopo Bretton Woods, i tentativi degli Usa di tenere sotto controllo dollaro e inflazione divennero sempre più difficili finché, nel 1971, si abbandonò definitivamente la parità aurea, lasciando che ciascuna moneta fluttuasse liberamente nei mercati.
La complessità del fenomeno inflazione è dovuta al fatto che può avere differenti cause generatrici. Come anche più volte ribadito dalla Fomc, si riconosce (anche in ambito accademico) che è la politica monetaria a determinare il tasso di inflazione nel lungo periodo, puntualizzando che lo stesso tasso di inflazione obiettivo di lungo periodo è il 2%. Le motivazioni alla base di questo tasso di tendenza di lungo termine sono da attribuirsi al fatto che esso contribuisce alla stabilità dei prezzi e al raggiungimento di un livello di occupazione tale da avvicinarsi alla massima capacità produttiva. Ovviamente la Fed riconosce che nel breve e medio termine, altri fattori non monetari influiscono sulla struttura e sulla dinamica del mercato del lavoro. Questi fattori sono diversi di volta in volta, difficilmente prevedibili e misurabili.
L’inflazione non ha un’origine esclusivamente monetaria ma, nel breve e medio periodo può essere determinata sia da un eccesso della crescita dei salari rispetto alla produttività del lavoro, sia da shock sul lato dell’offerta o della domanda aggregate.
Il Covid ha rappresentato un evento straordinario di “razionamento” di beni e servizi, al pari di quello che potrebbe accadere in una guerra, sia sul lato dell’offerta che su quello della domanda. Nel momento in cui la domanda, per effetto di una visione ottimistica sulla futura gestione del virus, ha ripreso parziale vigore, ha trovato un mercato dell’offerta estremamente “dislocato” rispetto alla domanda effettiva, in alcuni settori molto più che in altri.
Il picco di inflazione dell’ultimo periodo nel settore energetico e di alcune materie prime ha appunto questa causa, shock sul lato dell’offerta. Ora, il fatto che questo sia un fenomeno transitorio di inflazione da pandemia, nulla ci dice riguardo all’effettiva lunghezza temporale di tale” transitorietà” (cioè nessuno è in grado di dire con ragionevole precisione quando questo effetto terminerà, ristabilendo l’economia e le aspettative degli investitori nelle rassicuranti acque del “2% di lungo periodo”).
I timori delle Banche centrali
Ma non si può negare che il persistere del fenomeno sta cominciando a inquietare alcuni banchieri centrali in giro per il mondo. Ad esempio, la settimana scorsa Huw Pill, il capo economista della Banca di Inghilterra, ha affermato che sia la grandezza che la durata del picco di inflazione si stanno rivelando più ampi del previsto.
L’inizio del tapering è ormai alle porte: secondo Richard Clarida, vice chairman del Board of Governors della Federal Reserve, l’istituto centrale di Washington ha quasi raggiunto l’obiettivo sull’occupazione che era uno dei requisiti (l’altro è un’inflazione stabile) per avviare la riduzione del piano di stimolo realizzato attraverso l’acquisto di 120 miliardi di dollari al mese in Treasury e titoli legati ai mutui.
Il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, ha dichiarato allo Yorkshire Telegraph di essere preoccupato per l’inflazione: “Avremo un lavoro molto delicato e impegnativo da svolgere, quindi in un certo senso dobbiamo evitare che l’aumento dei prezzi diventi permanente, perché sarebbe ovviamente molto dannoso”. In altre parole, i tassi saliranno probabilmente nel Regno Unito già da dicembre, poi a febbraio e a maggio, dando inizio ad una stretta monetaria da parte delle maggiori economie.
Per adesso non ci sono evidenze contrarie al proseguimento del rialzo degli indici azionari, ma attenzione: uno S&P 500 al di sotto di area 4.250 sarebbe un campanello di allarme, per tutti i mercati, da non sottovalutare. Al contrario il superamento di area 4.550 confermerebbe la buona salute della Borsa Usa, e per esteso anche delle altre, aprendo la strada ad una ulteriore possibilità di crescita quantificabile nel 10% circa.
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