Due mesi fa era ancora acceso quel posto in Champions. Non si capiva quanta luce facesse l’Europa che conta. Poi d’improvviso è saltata la corrente. Colpa di una dispersione, sorgente elettrica di disperazione. Staccata la spina al sogno, è stata come l’eutanasia di un trionfo sospirato. Adesso tutti a caccia di questa maledetta dispersione. Che atterra punti e posizioni in classifica. Che sia nei muscoli o nel cervello dei giocatori? Inutile dirlo. Chi applica una scienza al gioco, sa in questi momenti di dover rivedere l’impianto, ridistribuendo le energie sul campo in funzione dei componenti che ha a disposizione. Cioè, i giocatori. Testa e gambe non sono in ballottaggio: ma insieme fanno quella differenza di potenziale che genera le vittorie. Elementare. Si chiama tattica di gioco. Perché il calcio non è circo, semmai un circuito. Quando si spegne, serve un po’di lume tattico. A partire dal modulo. Con quel 3-5-2 che ormai rivela al Napoli il suo ritratto di Dorian Gray: esalta solo le rughe e cancella i bei lineamenti di una volta. Basta fare un test per reparto. E scoprire tutte le anomalie.
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In primis, la difesa colabrodo. Non è tanto il numero dei gol subiti, quanto quel senso di inquietante leggerezza che contrasta con le azioni avversarie. Limiti e caratteristiche dei difensori in organico, elevati all’impotenza di una reale intesa, scoraggiano la tenuta della linea a 3.
Poi c’è la legnosa inconsistenza del centrocampo. Solo fibre e poco fosforo là in mezzo, senza una vera fonte di gioco è quasi fisiologico che la gran mole di palle recuperate finisca nell’oblio delle palle perse. Cercasi un palleggiatore di ruolo.
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Infine, la solitaria vanità dell’attacco. Sprazzi di Lavezzi, lanciati nel vuoto cosmico e un po’ comico della manovra azzurra, producono un inutile strapazzo. Per il gioco della squadra e per il giovane talento argentino.
Allora, ci vuole una sferzata. La scarica che faccia ripartire il circuito. Uno schema adatto a volte soprattutto ai volti dei singoli azzurri. Archiviate a Palermo ipotesi di 4-4-2 a rombo, si azzarda un più congeniale 4-2-3-1. Con Santacroce, Contini, Cannavaro e Vitale dietro, Gargano e Blasi davanti alla difesa, Lavezzi, Hamsik e Datolo dietro l’unica punta Denis. Aspettando il rientro del più provvido Zalayeta. Sarebbe un passaggio rapido e indolore dal 3-5-2: vuoi per lo schermo dei due davanti alla difesa, vuoi per la semplice scansione del vecchio centrocampo a cinque, che separerebbe finalmente i ruoli di interdizione e di costruzione della manovra. Un modulo che caverebbe Hamsik dall’attuale equivoco, assicurandolo alle incursioni e guarendo la sua anemia di gioco. Un 4-2-3-1 più strategico e foriero di soluzioni offensive. Garante di imprevedibilità e di spazi in attacco per liberare il tiro. Un modo, più che un modulo, per uscire dall’imbuto tattico del gioco fisso sulle fasce, otturato ormai dalle marcature rigide degli avversari che sembrano aver imparato la lezione del girone di andata. Un’unica avvertenza: guai a bruciare il pur valido Christian Maggio. L’esterno rappresenterebbe un’utile alternativa nel corso del match e una risorsa in più per una panchina troppo spoglia.
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Nel ritiro forzoso di Castelvolturno, iniziato lunedì, a scandire il futuro potrebbero essere le ultime parole del saggio Aldo Moro, prigioniero anche lui, come il Napoli, di un sogno collettivo. Già, quelle parole valgano anche per il futuro di questa squadra. Dove, davvero: “se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.
Di Alessio Gemma per ‘I Fatti di Napoli’, in onda ogni venerdì alle 22.10 su TeleA+ e su Sky 929