Pochi giorni dopo la morte di Johann Cruijff mi ritrovo ancora a scrivere in prima persona. Forse non il massimo dell’eleganza ma una scelta mirata perché la notizia è di quelle personalmente forti: il ritiro ufficiale di Alvaro Recoba dal calcio giocato. Che poi è notizia fino a un certo punto, perché Recoba si è già ritirato più di una volta e più di una volta è tornato in attività, nell’arco della stessa partita.
Si parla del mio giocatore preferito, un giapponese nato in Uruguay, e per questo scendo in campo con la prima persona sulla schiena. Il ‘potrei ma non sempre voglio’ in carne ed ossa, la montagna russa dell’orgasmo calcistico, in grado di -per dirla con i versi di Giorgia- portarti su fino all’apice dell’emozione e poi lasciarti cadere nel pantano della disillusione. Tutto rigorosamente con il piede sinistro. Massimo Moratti, che ha vissuto Recoba da vicino -vicinissimo, viste le non sporadiche tribune del Chino- ne ha probabilmente tracciato il profilo migliore: “Ronaldo è stato un immenso talento, ma per me non c’è nessun altro calciatore con certi mezzi tecnici come Alvaro Recoba, per me il più forte del mondo. Con doti tecniche come nessuno. Ha fatto una carriera al di sotto del suo straordinario valore“.
Il titolo del romanzo Recoba lo presta invece il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, autore della raccolta di aforismi ‘Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi‘. Raccolta di aforismi è esattamente lo scaffale narrativo su cui collocare la carriera di Recoba nella sconfinata biblioteca del pallone. Troppo umano, impigrito per votarsi al sacrificio della continuità; ma troppo umano anche nei suoi colpi di genio, improvvisi ed abbaglianti da non poter restare indifferente -anche da avversario, mi piace aggiungere. In ogni caso un grande, nei suoi aforismi tecnici e silenzi tattici, che d’altra parte erano forse condizione indispensabile per le eruzioni di talento che ci ha regalato. Mi piace pensare che dietro ogni sua pennellata mancina si celasse un laborioso ragionamento: ecco spiegato il Recoba sornione, il ‘gat de marmo‘ con le mani sui fianchi che ammira il contropiede avversario come un anziano di fronte al cantiere.
Proprio la debolezza del Chino lo ha reso l’idolo calcistico più completo, umano per l’appunto: il Ronaldo di cui sopra ci è stato regalato come un robot di ultima generazione, ha avuto bisogno di un destino avverso per accorgersi della tentazione nelle sue svariate forme (i chili, le donne, il Milan). Recoba, coi suoi tratti paffuti, i dentoni e i capelli a caschetto, poteva quasi essere uno di noi, tant’è che nessuno lo guardava in quell’indimenticabile Inter-Brescia. Ci voleva un uomo vissuto (o disperato, perché sotto 0-1 alla prima giornata) come Gigi Simoni per rischiare l’azzardo: dentro l’ultimo arrivato, vediamo che succede. E così anziché la perfezione di Ronaldo, beffardamente respinto da una traversa, quel giorno gli interisti scoprirono l’umanità di Recoba.
Che è sempre stata troppa e al tempo stesso troppo poca, basti pensare al suo marchio di fabbrica ovvero il tiro da qualsiasi distanza: il modo più semplice e ‘pigro’ di arrivare in porta, da centrocampo o più banalmente dal limite dell’area (e voglio aggiungere da calcio d’angolo, si veda Inter-Empoli 3-1 del 2006-2007). Lasciando che altri si sfiancassero in dribbling, finte, controfinte, uno-due, capriole, frizzi, lazzi. Se Ronaldo (Dio lo benedica!) è stato il sogno, non a caso spezzatosi assieme alle sue ginocchia, Recoba è stato un forte assaggio di realtà quotidiana, e lo capisco sempre meglio: una sequenza più o meno continua d’incazzature, incoerenze, incomprensioni (perché non corre? Perché lo pagano? Perché non tira? Perché tira? Perché non lo tolgono? Perché non lo mettono? E via) punteggiate da gioie immense e redentrici di tutto. Con la vocazione alla perfezione ma senza l’obbligo della perfezione, quello che attanagliava il Ronaldo di ieri e che insegue -per dirne uno- il Ronaldo di oggi.
A Recoba non ho mai chiesto (meglio: ho smesso presto di chiedere) la prestazione a tutto campo o full time: mi bastava un tiro mancino dei suoi, che mi ricordasse perché è bello andare allo stadio o guardare una partita sul divano, anzichè arrabattarmi in cerca d’avventure. Nella sua discontunuità mi ha lasciato intuire che la vita -pardon, la partita- è spesso una battaglia tattica ma che ogni tanto si può anche avere tutto e subito. A prescindere dal risultato: un giocatore per spiriti liberi.
(Carlo Necchi)