Finite le Olimpiadi Rio 2016, è inevitabile tentare di fare un bilancio della spedizione italiana ai Giochi brasiliani. L’Italia ha chiuso al nono posto nel medagliere con otto ori e 28 medaglie complessive: otto ori e nono posto nel medagliere sono esattamente lo stesso risultato ottenuto anche a Pechino 2008 e Londra 2012, quindi sostanzialmente è la terza Olimpiade consecutiva che concludiamo con lo stesso bilancio. A Pechino le medaglie furono 27, a Londra 28 proprio come a Rio de Janeiro, dove in compenso gli argenti sono stati 12 contro 9 – dunque, sia pure di pochissimo, possiamo dire che quella appena conclusa è stata la migliore delle ultime tre edizioni per l’Italia. Il bilancio dunque tutto sommato è soddisfacente, se si considera che nella rotazione delle specialità della scherma (il nostro tradizionale punto di forza) quest’anno erano escluse alcune delle nostre gare preferite, su tutte il fioretto femminile a squadre con conseguente riduzione da tre a due delle azzurre in gara anche nella competizione individuale: ecco perché il Coni prudentemente aveva fissato a 25 l’obiettivo ed essere arrivati comunque a 28 ci può far sorridere.
Fin qui i numeri di un bilancio che globalmente definiamo positivo, ma cerchiamo di scendere più nel dettaglio. Copertina al tiro, che ci ha regalato la bellezza di sette medaglie di cui ben quattro d’oro: la tradizione italiana nel tiro a volo è sempre stata eccellente, ma stavolta siamo andati oltre ogni più rosea previsione con medaglie sia dai veterani come l’eterno Giovanni Pellielo sia dai giovani emergenti come Gabriele Rossetti, con la chicca della doppietta delle mamme Diana Bacosi–Chiara Cainero, in più ci godiamo nel tiro a segno (solitamente più avaro di soddisfazioni per l’Italia) un fenomeno come Niccolò Campriani, che arriva a quota tre ori e un argento olimpici in carriera. Simbolo di un’Italia che funziona e che fa scuola (nel tiro a volo siamo il punto di riferimento per tutto il mondo), della quale troppo spesso ci dimentichiamo per quattro anni da un’Olimpiade all’altra per poi esaltarci se tutto va bene oppure lamentarci che non arrivano le medaglie quando qualcosa va storto.
Sulla scia di Londra, si conferma il fatto che negli sport di combattimento siamo sempre molto forti, anche se con alti e bassi: nel judo passiamo da un bronzo nel 2012 ad un oro e un argento oggi, con Fabio Basile in copertina sia perché è stato suo l’oro numero 200 sia perché ha regalato spettacolo vincendo per ippon tutti i suoi incontri tranne uno, nel taekwondo però non abbiamo qualificato nemmeno un atleta mentre a Londra avevamo vinto un oro e un argento (con gli unici due atleti qualificati) e fa male il vuoto della boxe, che d’altronde paga qualche verdetto discutibile (vedi Russo) e l’infortunio di Mangiacapre dopo il primo incontro, che il nostro pugile aveva vinto. Nella scherma abbiamo vinto meno del solito, pagando però, come già accennato, l’esclusione di alcune gare da sempre a noi favorevoli: il vero flop è il quarto posto del fioretto a squadre maschile, però siamo tornato all’oro individuale dopo 20 anni grazie ad un giovane emergente come Daniele Garozzo e anche la spada a squadre maschile è tornata sul podio dopo 16 anni di assenza.
Parlando di giovani, ci godiamo i gemelli del nuoto Gregorio Paltrinieri e Gabriele Detti (entrambi del 1994), che almeno fino a Tokyo e si spera anche oltre ci garantiscono un ottimo futuro nel nuoto maschile, con citazione particolare per Detti capace di andare sul podio sia sui 400 sia sui 1500, mentre Paltrinieri ha comunque retto benissimo il peso di dover gareggiare all’ultimo giorno e di essere “obbligato” a vincere i 1500, una situazione mai facile dal punto di vista psicologico anche se negli ultimi due anni hai dimostrato di essere il più forte del mondo.
Meno brillante la situazione tra le donne, dove dietro Federica Pellegrini sembra esserci poco, e questo purtroppo vale in molti sport: balza all’occhio il fatto che sette ori su otto sono arrivati dagli uomini e probabilmente su questo si dovrà riflettere. Sono fortunatamente lontani i tempi in cui le ragazze non facevano sport, tanto che giustamente a inizio Olimpiadi tutti sottolineavano con orgoglio il fatto che per la prima volta il numero di uomini e donne nella nostra spedizione era quasi identico, solo con una lieve superiorità maschile, quindi non è un problema quantitativo, ma il 7-1 degli ori (18-10 come numero complessivo di medaglie) parla chiaro.
L’esempio sintomatico è la pallavolo, lo sport di squadra per eccellenza al femminile in Italia, che ci ha regalato nella storia tante belle Olimpiadi in campo maschile, pur con la maledizione dell’oro ancora una volta sfuggito per un soffio, ma tra le donne mai nemmeno una semifinale – e quest’anno la Nazionale femminile del volley è stata forse la delusione peggiore. Eccezione naturalmente il Setterosa, che per la prima volta fa “doppietta” di podi con il Settebello ricordandoci una volta di più che lo sport di squadra per eccellenza dell’Italia, risultati alla mano, è la pallanuoto.
L’atletica meriterebbe un capitolo a sé: da una parte è vero che con Gianmarco Tamberi e Alex Schwazer (al di là dei ben differenti motivi che li hanno esclusi dai Giochi) avremmo potuto benissimo vincere due ori, però la situazione si fa sempre più seria e qui paghiamo probabilmente anche la storia. Altri sono bravissimi a “sfruttare” ancora oggi le loro ex colonie: pensate ad esempio se Mo Farah, nato a Mogadiscio, fosse venuto a vivere nella potenza ex coloniale del suo Paese – cioè, guarda un po’, l’Italia. Di certo, c’è qualcosa da rivedere e speriamo che chi di dovere sappia farlo al più presto, perché è triste vederci completamente assenti dai podi dello sport che più di tutti caratterizza le Olimpiadi e con risultati scarsi anche da maratona e marcia, nostri tradizionali feudi.
L’oro di Elia Viviani nell’Omnium del ciclismo su pista ci porta ad un caso emblematico: per decenni siamo stati tra le super-potenze dei velodromi, poi dal 2000 in poi c’è stato un vero e proprio crollo in corrispondenza del boom della Gran Bretagna e dei Paesi anglosassoni. Solo a quel punto qualcuno si è “accorto” che fare grandi risultati senza avere nemmeno un velodromo coperto è difficile nello sport sempre più scientifico del terzo millennio: ecco l’impianto di Montichiari e i primi segni di rinascita, dall’oro di Viviani (che a Londra era il nostro unico rappresentante) alle prestazioni più che positive dei quartetti sia maschile sia femminile, con tanti ragazzi in crescita come Filippo Ganna, quest’anno campione del mondo nell’inseguimento individuale, che ci fanno sperare in ottica Tokyo 2020. Parentesi sul ciclismo su strada: il più grande rimpianto delle nostre Olimpiadi è la caduta di Vincenzo Nibali a 10 km da un oro ormai vicinissimo grazie ad una fantastica prestazione dello Squalo e di tutta la squadra che ha lavorato in modo fantastico con un unico obiettivo – non è andata bene perché nello sport come nella vita bisogna sempre fare i conti con gli imprevisti, ma resta un esempio da seguire per compattezza e unità d’intenti.
Altra speranza è che i campioni di oggi possano aprire la strada a quelli di domani: ad esempio tutti ci siamo commossi per la straordinaria chiusura di carriera di Tania Cagnotto, che finalmente ha riscosso il credito che aveva con la sorte alle Olimpiadi, conquistando anche due medaglie a cinque cerchi dopo i successi in serie ai Mondiali e agli Europei, ma l’auspicio è che quei ragazzi che sulla scia delle imprese di Tania si sono messi a praticare questo sport possano crescere bene garantendo il ricambio, altrimenti non ci resta che sperare nei figli che eventualmente avrà (il matrimonio è alle porte), proprio come dall’ultima medaglia di papà Giorgio a Mosca 1980 abbiamo dovuto aspettare 36 anni per tornare sul podio grazie alla sua erede.
E’ il caso ad esempio della canoa: dopo l’epopea dei Rossi, Bonomi, Scarpa e Idem, siamo ritornati nelle retrovie. Su questo c’è da lavorare, senza disfattismi – in quanti altri settori possiamo essere certi di essere da sempre fra le prime dieci Nazioni al mondo? – ma anche con la consapevolezza che si può fare di più. In fondo, la tanto citata Gran Bretagna oggi seconda nel mondo, ad Atlanta 1996 aveva vinto un solo oro al termine di 40 anni nei quali non era mai andata oltre quota cinque… (Mauro Mantegazza)