La disforia è la cosiddetta incongruenza di genere, ovvero il non sentirsi a proprio agio in quel genere che è associato al sesso biologico, causa, questa, di un profondo mal-essere espresso in vari modi e qualche volta lesivo della persona stessa. Per ovviare sin da subito al disagio e alla sofferenza che ne derivano, si è ritenuto (e si ritiene) idoneo l’uso di un farmaco in grado di sospendere alcuni aspetti dello sviluppo puberale. Si tratta della “triptorelina”, già utilizzata nell’eventualità di pubertà precoce, come pure nella cura del carcinoma della prostata, in cui sia richiesta la soppressione della produzione di testosterone, e in quello della mammella, nei casi in cui sia indicato il trattamento ormonale.
Con l’espressione pubertà ci si riferisce, di solito, a quel periodo della vita che va dagli 8-9 anni ai 13-14, a seconda che si parli di femmine o di maschi e al di là di possibili anticipazioni o, al contrario, posticipazioni. La triptorelina dovrebbe così essere somministrata in tale arco temporale. I minori con disforia verrebbero innanzitutto sottoposti al blocco dello sviluppo dei caratteri sessuali primari e, in seguito, sarebbero loro somministrati gli ormoni (androgeni oppure estrogeni) corrispondenti al sesso che si è “scelto”. Un tale percorso renderebbe più agevole gli interventi successivi richiesti dalla transizione di genere.
Com’è intuitivo, si tratta di un argomento parecchio complesso. Coinvolge dimensioni così personali e disvela sofferenze così importanti, da richiedere in ogni caso ricostruzioni prudenti. Ancor più se si considera la marcia indietro che è stata fatta da alcuni Stati, alla luce delle prove scientifiche disponibili e in nome del principio di precauzione. Ad esempio, è significativo quanto dichiarato espressamente nelle linee guida della Finlandia e della Svezia, accomunate pur nella diversità di accenti dall’idea che gli interventi medici e chirurgici su minori con disforia di genere rientrano nella pratica sperimentale e che i rischi di tali interventi sono così alti da superare qualsiasi beneficio. Altrettanto significativo è quanto si legge nel rapporto Cass della Gran Bretagna, in cui si sottolinea l’assenza di trasparenza e la necessità di cautela nel campo dell’assistenza di genere per i bambini.
Ben si comprende il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) in risposta al quesito del ministero della Salute sull’uso nei minori della triptorelina nei casi di disforia di genere. Per un verso, i dati scientifici sull’uso dei bloccanti della pubertà sono decisamente insufficienti, si raccomanda pertanto di sostenere e finanziare la ricerca scientifica, in modo da fugare le tante incertezze sui rischi e sui benefici del blocco puberale. E, per l’altro, si ricorda che il modello di riferimento per gli studi clinici di autorizzazione dei farmaci è lo studio clinico controllato e randomizzato in doppio cieco. Detto altrimenti, i partecipanti allo studio sperimentale vengono assegnati in modo casuale a due gruppi; né i pazienti, né gli sperimentatori, sono a conoscenza del trattamento assegnato ai diversi gruppi.
Il CNB ha inoltre raccomandato che le valutazioni cliniche siano multidisciplinari e che la prescrizione della triptorelina avvenga a seguito dell’accertata inefficacia di un percorso psicoterapeutico-psicologico (ed eventualmente psichiatrico) e nell’ambito delle sperimentazioni promosse dal ministero della Salute.
La grande cautela richiesta dal parere del CNB è legata alla carenza di evidenze scientifiche, tale da sollevare molteplici interrogativi. In particolare: quando la diagnosi di disforia di genere è da considerare inequivocabile? Il team multidisciplinare si serve di indicatori precisi, e quali? La disforia è disturbo del comportamento, incongruenza o mera varianza di genere? L’incongruenza di genere nell’infanzia persiste nell’adolescenza e nell’età adulta? La pubertà è un periodo cruciale per il consolidamento dell’identità di genere: quali effetti ha la terapia farmacologica per frenare la pubertà? I diversi disagi (ad es.: ansia, depressione, psicosi), i disturbi (alimentari, comportamentali, relazionali) e il rischio di suicidio, associati alla disforia, vengono superati grazie ai bloccanti della pubertà e alle terapie ormonali? L’ipotesi di detransizione, ovvero il ritorno al genere originario, una volta compiuto il percorso di riassegnazione nel genere percepito e scelto, è possibile e a quali condizioni?
Sotto il profilo biogiuridico, ci sono delle ulteriori domande, e cioè 1) quale limite incontrano gli atti di disposizione del proprio corpo e 2) a che età il consenso può ritenersi in senso proprio consapevole e informato. Per il primo, pur in presenza di una legge che disciplina la rettificazione dell’attribuzione di sesso, permane il limite dell’integrità fisica (art. 5 c.c.: sono vietati quegli atti dispositivi che ne pregiudicano in modo irreversibile la sua integrità), che rappresenta un diritto assoluto, irrinunciabile e indisponibile. Nell’ipotesi di disforia di genere, il trattamento farmacologico volto a bloccare la pubertà, per la sua tendenziale reversibilità, non rientrerebbe nella disposizione citata, e invece sarebbero ricomprese le fasi successive a partire dalle terapie ormonali femminilizzanti o mascolinizzanti che menomano l’organismo in modo irreversibile. La dimensione naturale della fertilità, ad esempio, viene per sempre compromessa.
Per quanto riguarda poi il consenso, l’art. 3, legge 219/2017 recita: “La persona minore di età o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione […]. Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà”. Ciò implica che il minore sia ascoltato nel caso in cui sia sottoposto a interventi medici e chirurgici, compreso il trattamento farmacologico di blocco della pubertà, così che possa essere informato sui trattamenti e sia consapevole degli effetti che le cure hanno o potrebbero avere sulla sua persona.
Si pone naturalmente, nel caso di assenso, la domanda sull’effettiva comprensione da parte del minore della procedura in atto, che può essere supportata dal consenso dei genitori, o in assenza, dalla decisione del tutore nominato dal Giudice tutelare, o del curatore speciale nominato dal Tribunale dei minori. Ancora una domanda: quali limiti incontrano genitori e tutori e/o curatori speciali rispetto al corpo del minore, il cui mal-essere può non essere definitivo e può costituire molto semplicemente una fase della vita?
Con riferimento alla diagnosi di disforia di genere, bisogna ricordare che la valutazione medica non può essere compiuta prima dei nove anni; inoltre, l’ascolto dei minori ha un ruolo crescente al crescere dell’età e l’accettazione del blocco della pubertà presuppone un’età di almeno quattordici anni, senza considerare che con l’adolescenza nel 90% circa dei casi la disforia scompare o viene superata; e, infine, solo con la maggiore età, e con la completa capacità di agire, si può esprimere un consenso che riguarda il proprio corpo e la propria identità, in quanto si tratta di opzioni personalissime che neppure genitori, tutori e curatori speciali, possono assumere in rappresentanza del minore.
Non è un caso che un gruppo di intellettuali francesi, qualche anno fa, abbia lanciato un appello con il titolo “Furto dell’infanzia”, per sottolineare come il cambiamento di sesso in giovanissima età si basi su semplici percezioni, presentate come verità, e su meri interessi, al costo di medicalizzare e mercificare i corpi di bambini o adolescenti.
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