L’America è in guerra. Non per ciò che accade a Los Angeles, ma perché l’Amministrazione non sembra in grado di rispondere ai problemi
MINNEAPOLIS – Cosa sta succedendo in America? Cosa sta succedendo all’America? Probabilmente una guerra, perché come dice Paul Kahn, professore di Law and Humanities a Yale, un Paese è in guerra quando le istituzioni non sono in grado di rispondere ai problemi. E questo certamente è quello che stiamo vivendo oggi più che mai negli Stati Uniti.
Non sono tanto le immagini delle proteste in corso a Los Angeles a farci sentire in guerra, a darci un senso di instabilità ed incertezza (l’America nel bene e nel male resta una terra giovane, agitata e violenta come può essere un teenager), quanto la fragilità manifesta, la confusa frammentarietà operativa di quella che dovrebbe essere l’ossatura degli Stati Uniti, la spina dorsale della nostra democrazia su cui poi ogni cittadino può contare per vivere e costruire. Insomma quelle quattro istituzioni che abbiamo.
Invece l’Amministrazione sembra sbriciolarsi e mostrare tutta la sua debolezza e fragilità tra lotte intestine e sotto i colpi di quelli che erano gli amici di un tempo, mentre la Corte Suprema è inondata di quesiti provenienti dal sistema giudiziario che reagisce più o meno disordinatamente alla pioggia di Executive Orders presidenziali.
E in questo bailamme nessuno sa da che parte pigliare libertà di educazione e libertà di espressione (vedi quel che sta succedendo tra Amministrazione Trump e le più prestigiose università), perché nessuno sa dove comincino e dove finiscano queste libertà, da dove vengano, quale strada percorrano e dove debbano portarci.
E così siamo in stallo, nel mezzo di una guerra per lo più silenziosa (al di là del frastuono di Los Angeles). E la gente comune non sa più cosa pensare, chi ascoltare e cosa dire, perché a questo punto si capisce bene come non basti dichiararsi “con Trump” o “contro Trump” per avere un volto, un’identità, per dare al Paese una direzione.
Per un po’ di tempo è sembrato bastasse, è sembrato che “l’energia trasformativa” messa in campo da Trump con grande senso di urgenza fosse il segnale di un cambiamento necessario e possibile. Anche mosse forti, inattese e difficilmente comprensibili come quelle dei dazi doganali ed i colpi di scure tirati ad un’infinità di Dipartimenti (tagli di budget e personale) erano state accolte con fiducia, come promesse della rinascita di un’America di nuovo “grande”, sacrifici necessari per porre le basi di un futuro luminoso.
Per un po’ di tempo, un tempo breve.
E come in un racconto di Orwell, i protagonisti di ieri, quelli che come Musk avrebbero costruito il nuovo Paese, scompaiono dalle foto di oggi, come presumibilmente sarà domani dei protagonisti di oggi.
E poi le deportazioni di massa dei “cattivi immigrati”, quelli che sono entrati, ma non avrebbero dovuto, quelli che ci contaminano il Paese, i bersagli delle azioni di polizia dell’ICE (Immigration and Custom Enforcement), operazioni che non hanno nulla da invidiare a quelle della Gestapo. Milioni di vite stravolte, grandi e piccini. Adesso, con l’idea di fare di Guantanamo una enorme prigione per immigrati, cominciamo a fare un pensiero anche ai campi di concentramento…
Probabilmente in California saranno più di due milioni gli undocumented immigrants, ovvero quegli immigrati che non avrebbero diritto a risiedere negli Stati Uniti ma che negli Stati Uniti vogliono vivere, lavorare e vivere.
Quello dell’immigrazione è un tema enorme, qualcosa che per essere affrontato in maniera adeguata richiede tanto per cominciare cervello, cuore ed un minimo di comprensione e sensibilità verso il bene comune, una capacità di andare oltre il proprio immediato (ed apparente) interesse individuale.
L’Amministrazione Trump lo sta affrontando come tutte le altre questioni durante questo secondo mandato: decisioni rapide e sommarie, decisioni drastiche e disumane. Settecento Marines e duemila National Guards spediti in California per fronteggiare le proteste di questi giorni rappresentano appunto una soluzione rapida e sommaria, certamente inadeguata, che però ci fa illudere o quantomeno cerca di convincerci che quella che si sta svolgendo per le strade di Los Angeles è la vera guerra da combattere, mentre non lo è.
L’immigrazione dal Messico ha più di un secolo di storia, facciamo pure un secolo e mezzo, con un’esplosione numerica dal 1920 in poi. La California è un impasto di storia, tradizioni, lingua, sensibilità religiosa, tutti gli Stati Uniti lo sono. “Making America great again”, rendere l’America di nuovo grande è trovare la via perché la ricchezza di ogni popolo incontri quella degli altri popoli.
Che l’America riscopra e ricomprenda di essere il terreno fertile e privilegiato su cui questo miracolo può accadere. Di nuovo. Non c’è altra strada.
God Bless America!
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