Jannik Sinner, dopo la sconfitta agli US Open contro Alcatraz, ha detto di voler uscire dalla "comfort zone". I rischi non stanno in campo, ma fuori
Secondo la moderna psicologia, vivere in una “comfort zone” è un valore aggiunto perché regala equilibrio fisico e mentale. Starne fuori significa aumentare stress e insicurezza. Jannik Sinner vuole invece scapparne e subito. Chi ha ragione?
Probabilmente entrambi, perché la “zona di conforto” cui s’è riferito il tennista azzurro subito dopo la recente sconfitta (doppia: agli US Open e nella classifica Atp, dove ha perso il primo posto) ad opera di Carlos Alcaraz è tutt’altra cosa. “Cercherò di uscire dalla mia comfort zone, magari anche perdendo qualche partita, ma cercando di essere più imprevedibile” ha detto ammettendo la superiorità dello spagnolo.
Ecco, appunto: Sinner dev’essersi sentito come adagiato sul divano di casa, tranquillo dei risultati raggiunti, forte della propria forza. Nello sport, questo atteggiamento è il peggiore dei mali perché confonde la superiorità di una gara o di una partita con la convinzione che essa duri molto più a lungo. Invece non è così e gli esempi, in ogni disciplina o epoca, si sprecano. Specialmente quando la giovane età e il successo economico vanno a braccetto.
Del resto, la regola vale ben oltre i confini sportivi, investe la vita umana in quanto tale. Il giocatore altoatesino ha conquistato i tifosi per i grandi risultati raggiunti nell’ultimo biennio e le loro mamme per l’immagine tranquilla, da bravo ragazzo tutto tennis e famiglia, serio, pacato, senza grilli per la testa. C’è da temere che qualcosa sia cambiato in lui?

Non possiamo giurarlo, ma ci pare proprio di no: “Durante il torneo ho sempre ripetuto le stesse cose, non ho fatto nemmeno una combinazione servizio-volée e non ho fatto molti drop shot – ha spiegato ai giornalisti –. Poi arriva il momento in cui affronti Carlos e devi uscire dalla comfort zone. Devo provare piccole cose che nelle partite poi ti danno più confidenza. Carlos forse è il migliore in questo, non diventerò mai come lui, sarò sempre io come giocatore”.
Dichiarazione che da un lato riconosce la superiorità dell’avversario, dall’altro ammette i propri errori e anche i limiti. Un doppio segno di maturità, difficile da trovare a 24 anni.
Ma ciò che vale per lui vale anche per Alcaraz: vittorie e sconfitte non durano per sempre. Meglio tenere i piedi per terra, meglio ancora se ti circondi di amici che ti aiutano. Piuttosto, temiamo più per quanto vediamo accadere fuori dai campi di gioco che al loro interno. A cominciare dalle cifre astronomiche di cui può già disporre.
Poi c’è il gossip, che vola per sua natura più in alto della realtà. Qualche amico bene informato mi suggerisce che “bisogna far capire a Jannik che non può vincere se tiene nel box una come Lindsey Vonn”. Cosa che, detto citando Alexander Dumas padre, ha un significato poco confortante: “C’è una donna in ogni caso” ovvero essa è la radice del problema.
Nessun intento sessista, per carità, e nessun moralismo. Ma se tra il tennista azzurro e le belle atlete di cui si è circondato ultimamente, fra le quali appunto l’icona dello sci alpino a Stelle e Strisce, c’è della “simpatia”, speriamo solo che il fascino indubbio dell’ex-olimpionica non gli dia alla testa. Non sarebbe il primo caso. Le sconfitte servono a ricaricare le batterie per ripresentarsi più determinati di prima. Sui campi di gioco come su quelli della vita.
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