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Home » Chiesa » Vaticano » CHIESA/ La lezione dei martiri d’Algeria: la libertà di credere è un’amicizia

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CHIESA/ La lezione dei martiri d’Algeria: la libertà di credere è un’amicizia

Int. Thomas Georgeon
Pubblicato 23 Agosto 2019 - Aggiornato alle ore 08:13
I monaci di Tibhirine (foto dal web)

I monaci di Tibhirine (foto dal web)

Thomas Georgeon, monaco trappista e postulatore della causa di beatificazione dei martiri di Tibhirine, interviene oggi al Meeting sul tema “Liberi di credere”

Thomas Georgeon, monaco trappista, è postulatore della causa di beatificazione dei 19 martiri d’Algeria. Ha assunto questo incarico nel 2013 e l’8 dicembre dello scorso anno i 19 sono stati proclamati beati con una cerimonia officiata dal cardinal Becciu in rappresentanza del Santo Padre, svoltasi ad Orano. In questi anni padre Georgeon si è diviso tra il monastero dove risiede, in Normandia, e Roma. Il suo lavoro non è concluso, ma proseguirà in funzione della causa di canonizzazione, quella che proclama santi. Tra i suoi scritti, Semplicemente cristiani. La vita e il messaggio dei beati martiri di Tibhirine e La nostra morte non ci appartiene. Per la prima volta è a Rimini, dove oggi interverrà al Meeting per l’amicizia fra i popoli sul tema “Liberi di credere”, insieme al teologo Javier Prades, rettore dell’Università San Damaso di Madrid.


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Liberi di credere è un titolo suggestivo. Ma in Occidente chi ci impedisce di credere? La libertà religiosa è un principio acquisito. Sono altri i mondi in cui non si è liberi di credere. O no?

Indubbiamente in Occidente vi è libertà di coscienza, di opinione e di religione. E questo è fondamentale. Io però vorrei porre l’accento su questo: non si nasce cristiani, come invece, ad esempio, si nasce musulmani. Cristiani si diventa, tramite il Battesimo, cioè tramite un atto di libertà, esercitato magari dai genitori. Nel cristianesimo la libertà di credere deve appoggiarsi sul desiderio dell’uomo e richiede una responsabilità. Non è poi così ovvia questa libertà. Il consumismo che ci fa passare quasi compulsivamente da un bene all’altro, ci fa consumare tutto, ma non ci rende liberi. Credere ci dà una radice profonda in Cristo e in noi stessi. Difende e afferma la nostra umanità.


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E’ però vero che la nostra tradizione liberale tende a limitare la religione al momento privato, non accettando che abbia rilievo nello spazio pubblico.

Questo è un limite e un errore, oggi aggravato dalla paura dell’Islam. Parlo soprattutto della Francia, ma non è tanto diverso da altrove. La Francia ha reagito accentuando l’idea di laicità, cioè appunto l’idea (e l’obbligo) di mantenere nell’ambito strettamente privato ogni esercizio o manifestazione religiosa.

E questo non corrisponde a una generale laicizzazione della società stessa?

Fino a un certo punto. Dopo l’incendio della cattedrale di Notre Dame di Parigi, s’è vista gente pregare per le strade. Cosa mai fatta, a mia memoria, dai cattolici francesi. Ho l’impressione che soprattutto tra i giovani vi sia meno paura di esprimere la propria fede. Sono pochi, beninteso, una minoranza; ma capace di testimoniare in che cosa, o meglio in chi, confidano. Hanno acquisito una maggior libertà di credere. In questo sono il futuro della Chiesa.


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In Italia capita che la religione cattolica sia presa come uno dei fattori di un’identità etnica e nazionale da difendere. Ha avuto notizia del nostro ultimo ministro dell’Interno, Matteo Salvini, con il rosario in mano in qualche comizio?

Sì. Non è la logica dei 19 martiri. Direi che è il contrario. Essi hanno cercato come nutrirsi della fede dell’altro, anche musulmano, non certo per cambiare religione, ma per arricchire e approfondire la propria fede in Cristo. Guardiamoci dall’essere reciprocamente ignoranti della nostra fede. Perché l’ignoranza conduce alla violenza, all’intolleranza, all’odio.


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Parlerà dei martiri di Algeria, oggi, affrontando il tema dell’incontro?

Certamente sì. Da loro ci giunge un messaggio decisivo. La loro libertà di credere ha coinciso con la scelta libera di restare in Algeria nonostante il gravissimo rischio di perdere la vita in un periodo dominato da scontri armati, pericoli d’ogni genere, odio, disgusto dell’altro. Alle sollecitazioni dei governi e del Vaticano stesso ad abbandonare il Paese, rispondevano – ognuno con il proprio accento – che non potevano abbandonare gli amici. Hanno voluto condividere la sorte della gente con cui avevano intessuto quello che chiamerei dialogo non teologico ma della quotidianità.


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Non per difendere la Chiesa?

Ma la Chiesa in Algeria, dopo la decolonizzazione e l’indipendenza dalla Francia, non aveva proprio nulla da difendere in un Paese musulmano dal quale i cristiani se n’erano andati quasi tutti. Poteva tranquillamente e abbastanza sopravvivere come “chiesa d’ambasciata”: assistenza spirituale e celebrazioni liturgiche per il personale diplomatico. Invece il genio dell’arcivescovo di Algeri, cardinal Duval, lo portò a proclamare, nel 1968: “Dobbiamo essere una Chiesa algerina”. Una Chiesa, cioè, al servizio del popolo, con la testimonianza e l’amicizia.


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Ha usato due volte la parola amicizia.

E’ una dimensione essenziale nella testimonianza di questi martiri. Dicevano: “Se la gente ci chiede di andarcene, ce ne andremo”. Ma quella gente, chi li conosceva, mai lo chiese. Anzi. E portarono la vergogna, poi, per la loro uccisione. La libertà di credere consisteva per loro in una testimonianza di vita. Una vita donata a Cristo, e a un popolo che pure non era il loro, per servire la Chiesa in quel Paese. Un esempio chiaro di che cosa significasse amicizia ci è dato dal vescovo Clavéry e da Mohammed, che gli faceva da aiutante e autista in estate, quando mancavano i preti in ferie. Furono trucidati insieme. Un vescovo cattolico e un ragazzo musulmano. Entrambi sapevano di correre un pericolo mortale. Il vescovo confidò a un suo prete: “Anche solo per l’amicizia con un ragazzo come Mohammed vale la pena di restare qui”. E Mohammed confidò a un suo amico: “So che rischio la pelle, ma per amicizia continuo a fare quello che faccio”.

A distanza di anni, è rimasta una traccia di quella testimonianza nella gente musulmana d’Algeria?

Sì. Hanno segnato qualcosa di importante nella popolazione. Anche se il 60% di essa è fatta da giovani che non erano ancora nati all’epoca dei fatti. Specialmente per il vescovo Clavéry, uomo di relazioni fraterne a tutto campo. Ma anche per tutti gli altri. Per le stesse suore, che tutti ricordano nel loro quartiere.

La beatificazione si è svolta ad Orano, in terra musulmana d’Algeria. Fatto singolare.

C’è stata una straordinaria e sincera apertura delle autorità algerine che ha permesso in breve di organizzare tutto. Prima della messa del cardinal Becciu fummo ricevuti nella grande moschea dal Gran Muftì, da un centinaio di Imam e dal ministro per gli Affari del culto con grande senso di fraternità. Il ministro ha preso la mano del cardinale e non la lasciava più. Per la prima volta anche le donne poterono entrare nella sala della preghiera degli uomini. La libertà di credere è una novità di vita, difficile da dire con le parole. Essa si esprime soprattutto nei gesti di fraternità.

(Maurizio Vitali)

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